Del: 5 Ottobre 2006 Di: Redazione Commenti: 0
Li vedo: durante la conversazione uno di colpo si distrae, sta fermo e pensieroso, magari pochi secondi, ma è quanto basta per capire che la sua verità è là, dentro quel silenzio. Come uno che dinanzi a casa stia conversando con gli amici e a un tratto li lascia, corre dentro a vedere chissà cosa e subito dopo ritorna, col volto di prima tale e quale, e nessuno sa che cosa sia andato a fare e se qualcuno glielo domanda, lui risponde “niente”, e d’altra parte non si poteva scorgere nulla attraverso la porta quando lui l’ha aperta, che cosa ci fosse dietro, non si vedeva che un rettangolo di buio. Una immensa piazza, dunque, con intorno un’infinità di case, questa è la vita; e, in mezzo, gli uomini che trafficano fra di loro e nessuno riesce mai a conoscere le altre case; soltanto la propria, e in genere male anche questa, perché’ restano molti angoli bui e talora intere stanze che il padrone non ha la pazienza o il coraggio di esplorare. E la verità’ si trova soltanto nelle case e non fuori. Cosicché’ del restante genere umano non si sa mai niente.
L’uomo passa distratto in mezzo a questi infiniti misteri e ciò non sembra poi dispiacergli eccessivamente.

(La Solitudine, da “In quel preciso momento”, 1950)

Il 16 ottobre 1906, a San Pellegrino, nasceva Dino Buzzati. A cent’anni dalla nascita, e a poco più di trenta dalla morte, molti sentono il bisogno di ricordarlo, ricostruendo attraverso la fatica dei nomi e delle etichette i ritratti innumerevoli di una personalità poliedrica, le figure fluide dell’espressione creativa. Giornalista, scrittore, pittore, illustratore dilettante, poeta, artista della penna, della parola e della linea, ma soprattutto alchimista della fantasia, quella onirica e colorata del ‘Colombre’ e dei racconti, come quella lucida e spietata de ‘Il deserto dei Tartari’. Tra le molte parole spese per ricordarlo, tra conferenze e concerti d’alta quota, letture poetiche e colte chiacchierate, questo ‘personaggio fondamentale della grande cultura italiana’ – così lo si ricorda tra le pagine del ‘Corriere della Sera’, che nel 1928 lo accolse, ancora studente in Legge, per non lasciarlo più – ama sfuggire alla facoltà fotografica del ricordo e della commemorazione, con l’attualità sorridente delle sue pagine, che toccano i punti sensibili, quelli dolenti, del contemporaneo, attraverso figure delicate che sono gli archetipi senza tempo di ogni immaginazione; l’immagine è quella di un filo di poesia teso ad arte tra due mondi, laddove la penna non perde mai il contatto con la sorgente del reale, e con le ragioni della sua logica, mentre in controluce coltiva le trame del fantastico, del fanciullesco, del sogno, in una dimensione dipinta di antitesi e ombreggiature, tra mostri colorati ed infinite angosce, luoghi incantati e uomini impotenti abbandonati ad attese senza fine. La facoltà lucidissima di osservazione del reale e dei suoi meccanismi psicologici sottili, maturata all’interno dell’imperitura tradizione del romanzo borghese del secondo dopoguerra, quello delle Ginzburg e dei Tomasi di Lampedusa, si diffonde in Buzzati in una narrazione distesa, ironica e pacatamente surreale, e trova la sua più alta espressione nella forma prediletta del racconto, laddove la vicenda del quotidiano arriva a svelare in pochi tratti pittorici i propri risvolti di follia, per farsi parabola senza tempo di una società borghese accartocciata e decadente, eppure sempre viva e attuale, oppure teatro di fiaba, colorato, onirico, saggio; allo stesso modo, quasi le pagine si facessero specchio di un’intera vita, Buzzati è figura molteplice, uomo d’azione e giornalista, oltre che letterato e poeta, corrispondente di guerra, imbarcato sull’incrociatore Fiume nel 1940, cronista politico, negli articoli sulle ‘ore memorabili’ della Liberazione, il 25 aprile 1945, e di attualità, negli articoli del 1969 a commento del primo viaggio dell’uomo sulla Luna, fonte di ispirazione sempre viva per il cinema ed il teatro.

Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre per raggiungere la fortezza Bastiani, sua prima destinazione”; con queste parole prende inizio ‘Il deserto dei Tartari’, quello che Buzzati considerò il capolavoro di una vita e per cui prese spunto“…dalla monotona routine redazionale notturna, che facevo in quei tempi. Molto spesso avevo l’impressione che quel tran-tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. E’ un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nella esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva: nulla di meglio di una fortezza all’estremo confine, mi parve, si poteva trovare per esprimere appunto il logorio di quell’attesa” (Il Giorno, 26 Maggio 1959).

Lo stesso pessimismo lieve, la stessa angoscia sorridente, ritroviamo nei Diari e nelle Poesie illustrate, nei racconti per bambini e adolescenti, nel sergente Drogo e nella sua attesa senza nome, come nell’incontro di Stefano Roi con il suo personalissimo mostro, il Colombre, laddove l’attesa di una vita si fa errore e inevitabilità, la prima destinazione si rivela essere l’unica, e l’esistenza della scelta è domanda, la soglia tra fatalità e responsabilità dramma di ogni uomo; lungo le pagine dei racconti, delle poesie, dei diari illustrati, l’ironia e la voce magico-fantastica colorano i temi della solitudine, dell’abbandono, rendendoli fiaba, canzone, filastrocca, filosofia poetica, ricollegandosi così alla tradizione senza tempo delle grandi favole che, in ogni età della vita, servono a formulare, e a dare risposta, ad una diversa domanda. In modo analogo, nella sua attività di illustratore e pittore, un universo di immagini di fanciullo si fa scena surreale ed iperreale, e l’illustrazione fantastica sfiora atmosfere di enigma che ricordano De Chirico e le sue piazze, piazze mute e ossessionanti, qui invase di colori e di primavera.

In certe notti serene, con la luna grande, si fa festa nei boschi. è impossibile stabilire precisamente quando, e non ci sono sintomi appariscenti che ne diano preavviso. Lo si capisce da qualcosa di speciale che in quelle occasioni c’è nell’atmosfera. Molti uomini, la maggioranza anzi, non se ne accorgono mai. Altri invece l’avvertono subito. Non c’è niente da insegnare in proposito. è questione di sensibilità; alcuni la posseggono di natura; altri non l’avranno mai, e passeranno impassibili, in quelle notti fortunate, lungo le foreste tenebrose, senza neppure sospettare ciò che là dentro succede. (Da ‘Il segreto del bosco vecchio’, 1935)

Viviana Birolli

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