Nel raccontare le ultime ore di vita di Robert Kennedy, Emilio Esteves, figlio d’arte (suo padre è Martin Sheen) sceglie sapientemente di non mostrare mai il vero protagonista della vicenda, se non attraverso immagini di repertorio. Le parole dei discorsi di Bobby, che rimbalzano dagli schermi televisivi accessi nelle stanze dell’albergo, fanno da sottofondo a un affresco corale su un’America che insieme al giovane senatore democratico sta perdendo anche la propria innocenza. Un affresco alla Altman, che strizza l’occhio a “Nashville” (anche lì il film si chiudeva con colpi di pistola verso un candidato, seppur di segno radicalmente opposto). Ma tuttavia senza l’amarezza, il disincanto, la cruda ironia del maestro. Dal tono invece elegiaco, malinconico per ciò che avrebbe potuto essere, non è stato, e non sarà più.
Dallo schermo riaffiorano allora le angosce, le frustrazioni, le nevrosi (ma anche i lati positivi) di una società che sta sprofondando verso il baratro del Vietnam, del Watergate e di una delle più grandi crisi sociali e politiche che ha mai dovuto affrontare.
Non mancano ovviamente i riferimenti ai giorni nostri: dalla vicenda del messicano Jose che allude al muro della vergogna e alle leggi anti-immigrazione del governo Bush all’ovvio parallelo tra guerra del Vietnam e guerra in Iraq. L’America traballante di ieri, sembra dire il film, assomiglia terribilmente a quella di oggi, incamminatasi, come i soldati nel finale di “Full Metal Jacket”, verso un inferno terreno tutt’altro che metaforico.
Bobby appartiene quindi a un filone di film d’impegno civile, di simpatie squisitamente democratiche, che già in passato ha prodotto pellicole come “Tutti gli uomini del presidente” o “Philadelphia” e in tempi più recenti “Good night and good luck” o “Syriana”. Non rinuncia completamente all’idea del sogno americano (si veda la tirata del personaggio interpretato da Laurence Fishburne al giovane messicano Josè, che tira in ballo nientemeno che Rè Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda), ma sa anche dipingere i sogni spezzati di un epoca, in maniera nient’affatto trionfale. Il linguaggio è sonoramente hollywoodiano ma il finale è tutt’altro che retorico – o perlomeno ben lontano dalla retorica solenne a cui il cinema americano corrente ci ha abituato.
Francesco Zurlo