Del: 11 Marzo 2007 Di: Redazione Commenti: 0
Nasce a Lecce, si laurea in architettura a Milano, ma subito posa la matita e va a fotografare l’Africa e l’America del Sud. Andrea Frazzetta ha 29 anni ed è stato insignito del Premio Canon 2006 – riconoscimento di prestigio per giovani talenti – per il miglior progetto fotografico. Rappresentato in Italia e all’estero dall’agenzia Grazia Neri, ha esposto il proprio lavoro su riviste come D di Repubblica, Internazionale, Domus, Financial Times, Courrier International. Nell’ultima mostra, allestita recentemente a Milano, Frazzetta con le sue foto ha raccontato la vita quotidiana del Congo mettendo in luce le prospettive di cambiamento del paese, come gli scatti che documentano l’attività di Radio Okapi, un’emittente libera a grande diffusione. Ma prima del fotoreportage c’era uno architetto.

In che modo lo studio dell’architettura ha influenzato la tua fotografia?
Quello dell’architetto che progetta è un lavoro affine al mestiere del fotoreporter che costruisce una storia. Inoltre io studiavo progettazione architettonica e ciò ha avuto influenza nello studio sulla composizione degli spazi. Trovo interessante usare le regole grafiche per sfruttare il gioco di superfici. Un vezzo geometrico può servire a sottolineare il contenuto.

Perché fotografare il Congo?
Perché ti mette alla prova. È difficilissimo lavorare lì. Non si può fotografare in strada, per ogni cosa ci sono trafile particolari. Sono passato per cinque controlli in aeroporto. Funziona così: tu inizi a contare le banconote, quando l’addetto comincia a chiudere la borsa vuol dire che hai raggiunto la quantità di soldi necessari.
Finora hai lavorato soprattutto in Sudamerica e Sudafrica, perché scegli paesi che tra le caratteristiche principali hanno la povertà della popolazione? Vorrei tanto fotografare Islanda e Norvegia; il problema è che in Perù ci vado con 1500 euro, a Oslo non mi basterebbero neanche per una settimana. E poi, in questi paesi del sud, sei agevolato dalla presenza delle Organizzazioni non governative alle quali ti puoi affiancare. Ma è tra i miei desideri andare anche nei paesi nordici.

Tu hai affermato che davanti a una foto vai subito a guardare i bordi. Che succede attorno a una foto?
Spesso quello che conta nella fotografia è ciò che viene escluso. Mi piacciono le foto che ti lasciano insoddisfatto. La foto funziona quando la storia non muore lì, ti fa venir voglia di sapere che c’era attorno. Le foto che mi piacciono di più sono quelle dove si sente l’esclusione di qualcosa, ad esempio in una foto che ho scattato in Congo. Ho immortalato delle donne di una setta che, in rapimento estatico, pregano. Ciò che non si vede nella fotografia è che tutt’attorno stava succedendo un putiferio.

Foto in bianco e nero o a colori?
Le agenzie selezionano fotografi che lavorano a colori. A me piace di più il colore. Quando a Luigi Ghirri chiedevano perché fotografasse a colori lui rispondeva: «Perché vedo a colori». La foto in bianco e in nero sembra più accattivante perché fa vedere la realtà come non è. È come fare silenzio attorno.

Il tuo fotografo preferito?
Paolo Pellegrin è un mostro. Mi piace per la capacità e il linguaggio che usa. Lui è un esempio di dedizione e volontà che ora ha trovato il giusto scenario.

Libro di foto da regalare?
The Americans di Robert Frank. Bellissimo.

Professionisti o dilettanti, oggi tutti fotografano. Ma si possono chiamare fotografi?
Non ho nessun preconcetto nei confronti della democratizzazione dell’uso della foto. Se uno ha urgenza di dire qualcosa se ne deve infischiare delle regole scolastiche. A volte il nodo della tecnica nasconde la mancanza d’idee. La tecnica è solo uno strumento. Ci sono artisti che fanno foto sbagliate, ma il messaggio che devono comunicare è talmente urgente che vanno comunque benissimo.
Sangue, guerra, immagini cruente, quanto sono necessari al lavoro di un fotografo? Io, appassionato di Calvino, seguo, per comunicare, l’ideale di “leggerezza”. Sono infastidito da foto cruente. Non ho mai fatto reportage di guerra e non voglio fare un lavoro dove sia necessaria una guerra. Werner Bischof è riuscito a comunicare la drammaticità della guerra fotografando il corpo di un militare coperto da un velo, avendo il pudore di non andare a scoprirlo. La differenza è fra uno che semplifica, e uno che ci mette rispetto e poesia.

a cura di Diana Garrisi

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