Si accede alla mostra varcando l’ingresso del palazzo reale e svoltando nelle prime sale a destra, quelle tradizionalmente adibite agli eventi gratuiti aperti al pubblico.
Le pareti sono bianche, candide, come la luce che in quella mattina di dieci anni fa imperversava nel cielo sopra Manhattan. Si respira il silenzio, tipico delle mostre poco affollate nei pomeriggi domenicali.
La prima sala alla quale si accede è una sorta di rassegna stampa appesa alle pareti delle prime pagine uscite sui quotidiani angloamericani il giorno successivo alla tragedia. Questa sfilata di titoli e testate disposte sui quattro lati della sala permette di comprendere appieno quale fu l’impatto mediatico dell’evento: si leggono frasi come “Un nuovo giorno di infamia” oppure “Nightmare” sul Daily News, il Times gioca la carta dell’associazione con Pearl Harbour, intanto la rabbia de The Examiner si esprime a caratteri cubitali nell’espressione “Bastards”, “Devastation” evoca il Sun e l’Herald preferisce il potere evocativo delle immagini a quello delle parole, inserendo una foto a tutta pagina che ritrae il volo compiuto da uno degli uomini che, vistosi bloccato al di sopra del punto di impatto, decise di lanciarsi dalle torri.
Ed infine, a metà parete, il titolo più americano possibile: “la nostra nazione ha visto il diavolo” sostiene il Rochy Mountain News; anche nella tragedia, nel disastro, sono il sentimento hollywoodiano, l’aspetto mediatico, la ricerca spasmodica di una grassa emotività con la quale ingozzare il proprio pubblico a dettare legge in materia di comunicazione.
Un corridoio relativamente stretto, i cui unici ornamenti sono rappresentati da frasi stampate sui muri di alcuni sopravvissuti, conduce alla seconda sala, vera e propria esposizione fotografica, con scatti professionali e amatoriali, che ritraggono in ordine sparso e senza pretesa di continuità logica soggetti fra i più disparati: vi è il Boeing 767 mentre entra nella torre nord ripreso dalla zona di Trinity Church, una scritta nella polvere disseminata per strada che recita “welcome to hell”, i muri dei dispersi sotto una gigantesca scritta “Missing” presso il Bellevue Hospital, vero e proprio centro nevralgico delle operazione di soccorso in quella mattinata, oppure infine l’atrio mummificato del World Financial Center distrutto e completamente all’oscuro, con tanto di cornette telefoniche penzolanti dalle scrivanie.
Si legge quello che alcune persone sfuggite di poco alla morte ricordano di aver pensato: c’è Edgardo Villegas, impiegato nella torre sud che dichiara a caldo “sembravano bambole di panno che cadevano dalle torri, vestiti in giacca e cravatta”, mentre Nadia Burgess, giornalista, afferma “ho pensato che ci avessero bombardato”. Sono frasi che restano nella memoria di quei giorni al pari delle immagini che affollarono le televisioni di tutto il mondo; sono frasi che tuttavia non commuovono, non fanno inorridire né gioire. Sono frasi che nella loro umanità non spiegano affatto ciò che accadde realmente. Ecco quale lato della medaglia manca in tutta quella vicenda come del resto all’interno della mostra per il decennale: manca l’aspetto delle cause e delle responsabilità, vi è il dolore e la distruzione ed in certi momenti vi è anche mostrata la rabbia, ma non vi è alcun elemento che permetta di capire come edifici in acciaio e cemento armato possano crollare a velocità di caduta libera. Non è spiegato come l’acciaio che fonde a 1500 gradi centigradi possa essersi anche minimamente indebolito per via di un incendio che non poteva realizzarne, nemmeno in condizioni ottimali, più di 800. Non è spiegato che cosa colpì realmente il pentagono e per quale ragione l’edificio più protetto del mondo, stando a quella propaganda che per decenni ce l’ha descritto come un fortino inespugnabile, non abbia una telecamera come qualunque supermercato o benzinaio del mondo in grado di riprendere l’oggetto da cui fu colpito. Non è spiegato come faccia un Boeing che entra in un edificio a lasciare un foro del diametro di tre o quattro metri. Tantissimi altri sono i quesiti che non trovano una risposta adeguata né in tutte le mostre del mondo né tantomeno nei rapporti ufficiali della commissione 11/9.
Ciò che appare evidente all’occhio di un contemporaneo sono però gli effetti di quella mattinata: nuove guerre da combattere, sia militari che metaforiche. La formula un po’ preveggente dello “scontro fra civiltà” trovò finalmente un suo correlativo nella realtà, ma ciò che sicuramente avvenne quella mattina a partire dalle ore 8:45 di New York è che fra il grido “my god, my god” e quello “Allah, Allah”, la Storia, ben lontana dall’essere finita, ricominciò un’altra volta.
Francesco Floris