Del: 10 Dicembre 2012 Di: Redazione Commenti: 0

Diversamente da Chatwin, che nel 1976 varcò i confini Argentini alla ricerca della pelle del celebre milodonte, il mio viaggio lungo questa striscia di terra non è stato né un’avventura e né un racconto, solo il susseguirsi di emozioni e pensieri che mi hanno capovolto l’animo e la mente, fino a rendermi complice del mio futuro.

La realtà che al mio ritorno si è mostrata è che entrambi, sia io che Chatwin siamo partiti a 26 anni, avevamo circa lo stesso piano di viaggio e la fatidica domanda “Che ci faccio qui?”.

Rispetto a 36 anni fa, l’Argentina è una meta molto più facile da raggiungere e da vedere (per gli italiani il visto non viene richiesto dalle autorità doganali), nonostante il regime militare sia ancora un ricordo vivo e pulsante a causa della pesante eredità e per il marcato nazionalismo, così come la crisi economica d’inizio secolo.

Punto di partenza per l’altro emisfero è il poco suggestivo terminal B di Malpensa, con il  volo diretto ad Atlanta e, successivamente all’aeroporto più grande del mondo, Buenos Aires. La differenza con l’emisfero Nord si fa evidente fin dall’atterraggio: l’aeroporto Pistarini è una metafora del Sud America, poiché racchiude in sé la modernità, il sapore dell’esotico, la povertà e la sincerità di un popolo immigrato.

Ad attendermi all’arrivo nella Capitale Federale mi attendeva un amico il quale era in città lungo il suo pellegrinaggio australe in contemporanea alla mia visita e che ha reso molto più leggero l’inserimento nel tessuto sottile della una metropoli sud-americana. L’impatto con la capitale argentina è stato molto forte: l’autobus n°8, il più economico che porta al centro di Buenos Aires, percorre strade statali attraversando interi paesi, le periferie e alcune “villa miseria”, nome con cui gli argentini definiscono i quartieri malfamati. Nonostante questo, il panorama che si gode dai finestrini di quel vecchio bus sono molto più suggestivi rispetto a quelli dell’autopista (autostrada) che scorre accanto. L’attenzione di tutti i pendolari locali è rivolta verso chi, come me, risulta essere estraneo a questa realtà, ma curioso e positivo a concedersi alla vita di questa metropoli e di questo popolo.

Per approfittare di tutte le sfaccettature di una megalopoli come Baires è molto pratico soggiornare in uno dei tantissimi ostelli, che in Argentina sono frequentati spesso da studenti stranieri, turisti locali e lavoratori occasionali: i motivi di questa scelta, per noi e per loro, sono i prezzi molto convenienti, i servizi offerti e le posizioni caratteristiche in alcuni quartieri. L’unica accortezza è diffidare dei tassisti locali, i quali per spingervi verso ostelli a loro affiliati fomentano la paura del passeggero straniero, raccontando di quanto sia malfamato il quartiere dove lo stesso si sta dirigendo.

Buenos Aires, nei primi giorni del viaggio, è stata la base per conoscere gli usi e costumi del Paese: il nostro vero obiettivo era la Patagonia. Per risparmiare tempo abbiamo deciso di prendere un volo interno con destinazione ElCalafate, città a oltre 2000 km a Sud della capitale, conosciuta solo ed esclusivamente per motivi turistici. All’uscita del moderno e piccolo aeroporto, la temperatura, essendo inverno, era molto più bassa rispetto a quella di Buenos Aires ma il freddo non era pungente come descritto dalla celebre guida cartacea che ci accompagnava. Una lunga e sottile lingua d’asfalto conduce alla città che, almeno a mio avviso, non entusiasma per la sua bellezza: nata e cresciuta sulle sponde del Lago Argentino, ha la sua colonna portante in una via centrale, costellata di negozi di souvenir e alimentari; risaltano solo alcuni murales e le tipiche abitazioni a un piano che, con il tetto in lamiera appuntito, interrompono anche la monotonia della meseta patagonica.

Da El Calafate, grazie a uno dei tanti tour operator, è possibile raggiungere il Parco Nazionale del Perito Moreno, dove si può ammirare l’omonimo, e in costante movimento, ghiacciaio. Il pacchetto turistico che abbiamo scelto non era molto costoso per un turista europeo e ci ha permesso di partecipare ad alcune esperienze eccezionali come un giro in barca vicino al Perito, a un’escursione meravigliosa per alcuni sentieri della “Buenos Aires di ghiaccio” e a una splendida merenda a base di scotch, raffreddato da schegge di ghiaccio del Perito e alfajores (tipico dolce locale).

Un sentimento di malinconia mi pervade quando, sporgendomi dalle nuove balconate in legno e ferro di fronte al ghiacciaio, mi torna alla mente la foto di Chatwin, scattata in un epoca in cui ancora si poteva camminare nei ripidi boschi che conducevano alla riva e dove la fractura, ovvero la rottura del ponte di ghiaccio che per alcuni periodi collega il ghiacciaio alla terraferma, non si era ancora verificata.

Scappando da El Calafate, e dividendomi dal mio compagno di viaggio, è iniziata la mia risalita della Pampa con la meno celebre Routa 3; i paesaggi costellati di cespugli, la terra scura, le recinzioni delle aziende agricole e il cielo azzurro colpiscono la mia fantasia rimandandola a un illogico paragone con la Barbagia, e accompagnandomi per circa ventidue ore di viaggio. Tappa obbligata per la risalita è Rio Gallegos, ultimo avamposto del continente prima di Ushuaia, che saluta tutti i suoi visitatori dall’autostrada con una statua di Evita Peron (molto più simile a Madonna nei tratti). Da qui, superata una delle molte dogane interne (cosa che può spiazzare un occidentale abituato a una diversa concezione dello spazio), si risale verso il Nord con l’autobus, il mezzo più economico e confortevole per gli spostamenti interni: infatti, la linea ferroviaria è frammentata e lasciata all’incuria, forse per l’abitudine degli argentini di prediligere il mezzo a motore. La destinazione è una località della costa atlantica, che ti accoglie con un forte vento, ammirata più volte dagli enormi finestrini lungo la risalita, la città di Puerto Madryn.

DDiversamente da El Calafate, Puerto Madryn è la tipica città fondata da immigrati, con un centro storico e diversi punti di interesse: l’acciaieria più importante del Paese, il porto mercantile e un museo oceanografico. La città è la base prediletta per i turisti e i locali che vogliono andare verso la Penisola Valdez, un parco nazionale dove, a causa delle correnti più calde, per lunghi periodi dell’anno possono essere ammirate le balene, i leoni marini e i celebri pinguini di Magellano. Per entrare nella penisola, resa celebre da Saint-Exupery (il quale, ammirandola dall’alto mentre pilotava un aereo di linea che collega ancora oggi Ushuaia a Buenos Aires, notò la somiglianza con un “serpente che digeriva un elefante”), sempre con un tour operator, si passa da un piccolissimo museo dove vengono esaltati nomi di scienziati locali, orecchiati già da un altro viaggiatore quasi 40 anni prima.

Puerto Piramides è una piccola località da cui partono delle barche che ti portano a poche miglia dalla costa, per osservare meglio i cetacei. Il vento, in mare, è molto più forte rispetto alla riva e si fa sentire mentre noi turisti ci muoviamo, con in corpo l’animo degli esploratori, da una parte all’altra dell’imbarcazione per osservare le curiose balene che, senza alcun richiamo, si avvicinano allo scafo soffiando, dallo sfiatatoio, acqua salata e aria verso il malcapitato di turno che, come il sottoscritto, stava per immortalarle in una delle migliaia di foto che porterà a casa in ricordo della giornata. La visita al parco poi permette anche di vedere l’entroterra della penisola, promontori e diversi animali caratteristici di questa parte d’Argentina, distogliendo l’attenzione dalle numerose pecore incontrate lungo i chilometri percorsi fino a quel momento.

La risalita è terminata nuovamente a Buenos Aires, dopo l’ennesima notte sdraiato su una comoda poltrona. Sistematomi in un ennesimo ostello, sono partito carico di mille accorgimenti e con l’intenzione di vedere il più possibile, cercando di capire cosa avesse spinto Borges, il celebre scrittore, a viverci e ad ambientarci i suoi racconti. Il modo più facile è camminare per i quartieri
caratteristici, a cominciare da San Telmo, il quartiere storico della borghesia della città, dove sembra di tornare indietro all’arrivo dei molti italiani desiderosi di far fortuna in Sud America, con i suoi vicoli e le piazzette piene di negozi di antiquariato e bistrot in stile liberty. E’ obbligatoria una visita al mercato coperto del quartiere, con la pescheria e le sue librerie, e agli affascinanti cortili decadenti di ogni palazzo del quartiere. Camminando lungo i marciapiedi sconnessi verso Nord, la città stupisce con l’Avenida de Mayo, il teatro Colon, Corrientes e il caos generato dalla fiumana di persone che vi scorre, il quartiere ebraico, la Recoleta e Piazza Francia con il Museo delle Belle Arti. Continuando la mia personale maratona mi sono imbattuto poi nel monumento dedicato a Garibaldi e nella via dedicata a Borges, nelle case di Soho, una delle zone adibite alla movida della città e quindi molto frequentata dai ragazzi, francesi soprattutto, che sono in città grazie ai programmi Erasmus dei loro atenei e che adorano divertirsi tra feste e discoteche, nelle lunghe notti della capitale alle quali, io stesso, ho potuto partecipare.

Alla fine del viaggio, mentre con un taxi percorro l’autopista diretta al terminal della nostra compagnia di bandiera, con nostalgia sposto lo sguardo verso la piccola strada statale laterale dove, come tutti i giorni, scorre l’autobus n°8, in direzione opposta alla nostra, portando con sé i dubbi che mi accompagnavano prima di comprare i biglietti. Alla fine non era importante cosa ci facessi lì ma piuttosto perché non ci fossi stato prima.

Davide Contu

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