Del: 21 Gennaio 2013 Di: Redazione Commenti: 0

Silvia Masiero inizia a parlare che ancora non ci siamo allontanati dalla stazione della metropolitana, e quasi non riprende fiato, tanto ha di interessante da raccontare.
Ex-bocconiana volontaria in Medio Oriente, Africa e India, ma anche ricercatrice, maratoneta, blogger e saggista, Silvia ha un curriculum talmente lungo che si stenta a credere che abbia appena 26 anni.
Dopo averla conosciuta per caso ad una festa, la sua storia mi è parsa da subito degna di nota, ed è così che siamo finiti a chiacchierare davanti a una pinta di birra chiara.

Partiamo, per una volta, dalla fine: il tuo ultimo libro, The Palestinian Dilemma, rappresenta il risultato di un lungo lavoro sui temi dei diritti umani e della sostenibilità in Palestina. Ma cosa c’è all’inizio di questo percorso?
Il mio primo approccio al volontariato, più che al mio profilo professionale, si lega alla mia storia familiare: nipote di due partigiani e figlia di un comunista milanese e di un’anarchica, addormentata sin da bambina con le storie della Resistenza, era inevitabile che fossi educata a valori conflittuali rispetto a quelli dominanti nella società in cui sono cresciuta. A diciott’anni, mentre per l’estate della maturità tutti i miei amici andavano a Ibiza, io mi accorsi che volevo fare qualcosa di costruttivo, e così sono partita per un progetto di volontariato ambientale, a Maratona (e poi – ride – sono diventata una maratoneta, ndr). Anche se in Grecia ho passato più tempo a bere che a fare effettivamente del volontariato, ho comunque colto l’input a comprendere quanto utilmente potessi impiegare il mio tempo libero.

“Nipote di due partigiani e figlia di un comunista milanese e di un’anarchica, addormentata sin da bambina con le storie della Resistenza, era inevitabile che fossi educata a valori conflittuali rispetto a quelli dominanti

Un interesse per il volontariato e una carriera universitaria che hai voluto iniziare in Bocconi: non è forse una contraddizione?
Può sembrarlo, ma anche quello per l’economia era un interesse che mi veniva dall’educazione familiare: quando la Bocconi l’aveva fatta mio padre era un mezzo di emancipazione rispetto al paesino della bassa mantovana da cui proveniva.
Di mio invece ho deciso di portare avanti, parallelamente agli studi in Bocconi, il mio interesse per i Paesi in Via di Sviluppo ed è stato così che nel 2008, una volta laureata, sono andata in Palestina per la prima volta.

Esperienza destinata ad essere la prima di una lunga serie, dal momento che, di tutti i tuoi molteplici e vari interessi, quelli legati alle sorti della nazione e del popolo palestinese sembrano starti a cuore particolarmente.
È così, anche perché dopo essere arrivata in Medio Oriente per la prima volta ho capito che tutto quello che credevo di sapere (e credevo di sapere moltissimo, dopo aver frequentato per anni i centri sociali milanesi, dove invece è presente un’impostazione – mi spiace dirlo – molto ideologica) non valeva nulla. Così ho deciso di capire la realtà palestinese di persona, scegliendo un master in “Developing Management” alla London School of Economics. L’esperienza in Palestina nel 2008, l’impatto con i campi profughi e con la violenza dei coloni israeliani hanno fatto del volontariato la mia attività, da semplice attività estiva che era stata sino ad allora, e così ho trasformato un master che solitamente viene seguito per fare carriera in un’industria, quella dello Sviluppo, che non ha nulla di “più etico” delle altre, in un’opportunità per fare ricerca a favore dei diritti umani.

Tuttavia i tuoi studi a LSE ti hanno portato a lavorare e a studiare anche lontano dalla Palestina.
Durante il master ho conosciuto Shirin Madon, la mia relatrice di tesi, professoressa di origini indiane che si occupa di sistemi informativi in Kerala, nell’India del Sud. Nel 2009 sono andata per la prima volta in Kerala, per una ricerca sui telecentres, un interessante progetto del governo indiano su cui vale la pena di spendere qualche parola. I telecentres sono internet-cafè governativi, che lo stato del Kerala finanzia perché la gente possa accedere a svariati servizi governativi (ad esempio le rations cards, documenti d’accesso a razioni di cibo sussidiato per persone indigenti) imparando allo stesso tempo ad usare un computer ed evitando le lungaggini della burocrazia.
Da esperta di sistemi informativi e insieme da economista dello sviluppo, ho deciso di seguire il mio cuore, che mi ha detto: “Vai dove c’è bisogno, a vedere di cosa c’è bisogno!”

E immagino che sia stato sempre il tuo cuore a richiamarti, anno dopo anno, in Palestina, anche mentre studiavi e lavoravi al master.
Sì, dopo il 2008 sono tornata in Palestina fermandomi molte volte diverse settimane. E sempre alla Palestina è legata la figura che più mi ha ispirata come volontaria e come ricercatrice: Vittorio Arrigoni, giornalista, blogger e volontario italiano ucciso a Gaza nell’aprile del 2011.

Vittorio è stato anche la persona che mi ha salvata in più di un’occasione, insegnandomi come entrare e uscire dalla Palestina:

per accedere allo Stato di Palestina infatti è obbligatorio passare per Israele, dove si viene interrogati sui motivi della propria visita. Ovviamente non è nemmeno pensabile dire apertamente che si ha intenzione di entrare in Palestina, bisogna sostenere di essere interessati alle discoteche di Tel Aviv o ai luoghi santi della capitale. Ogni volta gli ufficiali di frontiera israeliani mi hanno fatto un bel corso di terrorismo psicologico: “You know Muslims are evil, they put bombs. So if you have any Muslim friends you must tell that.”
Bene, Vittorio mi diceva, ogni volta che mi avessero interrogata, di pensare a un film con Renato Pozzetto: quando ti interrogano tu hai un sorriso a trentadue denti, e gli racconti le bugie più sfacciate, ma gliele dici ridendo. Funziona sempre.
Per fortuna è raro che alla frontiera ti facciano spogliare, altrimenti avrei diversi guai con questo (sorridendo, indica il tatuaggio con una parola in arabo che porta sotto il braccio destro, ndr).

Cosa significa?
Questa parola significa “resistenza” in arabo, ed era il tatuaggio di Vittorio. Resistenza ha qui due significati principali, oltre al ricordo di Arrigoni: simboleggia il concetto di resistenza nel contesto palestinese – concetto con cui persino i bambini hanno estrema familiarità, al punto che riconoscono perfettamente la parola come il tatuaggio che portava anche Vittorio – come reazione all’occupazione israeliana, ma vuol dire anche resistenza nel senso più ampio, per quello che può significare per una nipote di partigiani.

Infine, per chiudere il cerchio: la tua decisione di fondere la passione per i diritti umani e la formazione come developing manager ha dato come risultato la pubblicazione del tuo ultimo libro, The Palestinian Dilemma, sull’accountability1 delle Nazioni Unite nei campi profughi in Cisgiordania.
Il libro è nato come un working paper, un lavoro per l’università. Ciò che è interessante – e che mi farebbe piacere fosse noto – è che

tante università hanno paura a finanziare ricerche sulla Palestina: mi ha finanziato l’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria. La Bocconi mi ha detto che loro non per forza riconoscevano i territori occupati, e anche LSE di fatto ha detto no.

Il mio libro è un progetto-pilota su come un progetto di accountability viene ridisegnato in un contesto in cui non c’è lo Stato (mentre tutti gli altri modelli di accountability sono basati sul modello stato-cittadino). Come vive e lavora, gestisce l’accountability un popolo senza Stato? Questa è la domanda a cui tento di rispondere con la mia ricerca.

Giovanni Masini
@giovannimasini

Foto di apertura di Hossam el-Hamalawy

 

  1. L’accountabilty è il “dovere di render conto”, di rendicontare e documentare il nostro operato a chi ci ha dato l’incarico. E’, per esempio, il dovere di rendere conto che i pubblici funzionari hanno nei confronti dei cittadini. []
Redazione on FacebookRedazione on InstagramRedazione on TwitterRedazione on Youtube

Commenta