Il 16 e il 17 novembre a Milano, all’Università Bocconi, si è tenuta la quarta edizione del congresso di Science for Peace della Fondazione Umberto Veronesi.
Suona sempre strano che in un Paese come l’Italia, e specialmente in una città come Milano, frenetica e movimentata, ci si possa fermare un momento per trattare un tema così intangibile, seppur tanto importante, come la pace. Eppure le sale della Bocconi erano strapiene di gente: studenti, insegnanti, giornalisti, uomini e donne di pace.
E’ stata sicuramente un esperienza formativa e toccante per tutti, ma limitarsi a riassumere cosa sia successo non basta per far capire quanto profondamente le parole dei diversi relatori abbiano colpito chiunque in sala: si poteva evincere il loro desiderio e la loro necessità di far evolvere il mondo (ma sopratutto la mentalità delle persone) verso un futuro di pace e speranza.
Proprio per questo motivo preferisco riportarvi le parole che maggiormente mi hanno stimolato ad una riflessione:
Umberto Veronesi sul tema della “Dignità delle persone alla luce delle neuroscienze”:
Una cultura di pace non può prescindere da una giustizia ispirata al recupero e alla riabilitazione della persona, in linea con l’Articolo 27 della Costituzione Italiana che stabilisce che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. I più recenti studi di neuroscienze hanno avvalorato questo principio dimostrando che il cervello umano, a differenza di quanto si pensasse, si rigenera durante tutta la vita grazie alla presenza di cellule staminali neuronali. Una scoperta che ha importanti riflessi etici e giuridici perché significa che chi ha commesso un crimine a 20 anni non è la stessa persona a 40 anni e dunque l’ergastolo ostativo, la detenzione a vita, si rivela un’ingiustizia grave.
Kathleen Kennedy, vic presidente di Science for Peace e professore associato della Public Policy Georgetown University, sul tema delle multinazionali:
Sappiamo tutti quali siano le condizioni dei dipendenti nelle multinazionali, basti pensare alla Apple, dove nel 2010 tredici dipendenti si sono tolti la vita nella fabbrica elettronica Foxconn di Shenzen. Tutti lo sappiamo bene, ma cosa facciamo per cambiare le cose? Niente! Siamo noi i primi che dobbiamo impegnarci a cambiare queste cose: le multinazionali perseguiranno sempre i loro interessi finché qualcuno non glielo impedirà. E questo qualcuno siamo noi. Siamo noi che dobbiamo fare domande, che dobbiamo criticare, che dobbiamo dire, anzi urlare: Apple, change your ways of acting! Abbiamo bisogno di un nuovo modo di pensare e fare economia più sociale.
Shirin Ebadi, Premio Nobel per la pace 2003, sulla pena di morte e sulla tortura:
Come si può parlare di pace? Come possono i Paesi occidentali parlare di pace, quando sono i primi a fare accordi con la Cina o l’Iran, nazioni in cui le esecuzioni possono ancora avvenire per strada, nazioni dove la pena è una violenza contro la stessa società, un delitto, un’ingiustizia.
Maryam Al Khawaja, vicepresidente del Barhain Center of Human Rights, sulla situazione del Barhain:
Il mio contributo è parlare, raccontare di quello che accade a casa mia, nel Barhain, e negli altri paesi del Golfo. La gente nel mio Paese ha paura, perché da un giorno all’altro possiamo perdere il lavoro (per qualsiasi cosa, anche solo per avere un account Facebook), la cittadinanza, la casa, la libertà. Noi non abbiamo la possibilità di ribellarci; la polizia può fare di tutto, può anche sputarci addosso, ma noi non abbiamo il diritto di dire nulla. E’ sempre stato così, ma ora la gente del Barhain sta iniziando a dire che quando è troppo è troppo: noi tutti non vogliamo più vedere degli standard diversi per i diritti umani. Non esiste lo standard per le persone occidentali e per noi: io voglio urlare a gran voce che non sono un oggetto, sono una persona e la mia vita ha un enorme valore, molto di più di un barile di petrolio. Non è che io non abbia più paura, ma arriva un momento in cui devi convivere con la tua paura, devi metterla da parte: è li e lo sai, però vai avanti lo stesso, non ti arrendi alla paura, non le permetti di fermarti. Combatti!
Giuseppe Ferraro, professore presso il Dipartimento Teorie e Metodi Scienze Umane e Sociali dell’Università Federico II di Napoli, sul tema delle carceri:
Il carcere è lo specchio infranto della democrazia. Confine di voci soffocate dal silenzio paradossale di chi vive e non esiste, datato per sempre per ciò che è stato. La pena non può essere il fine della giustizia, ma lo deve essere la restituzione della società e alla società dell’individuo. Una società che non sa restituire è una società che non ha memoria, che dimentica l’individuo, che lo abbandona. Ci definiamo civili, un popolo civile, una società civile, ma la nostra civiltà sarà davvero tale solo quando le carceri diventeranno scuole e le scuole non saranno carceri.
John Donohue, professore presso la Stanford Law School, sul tema della pena capitale:
Non possiamo continuare ad affrontare il male con il male, aspettandoci di poter creare del bene. Bisogna rompere il ciclo per poter ricominciare da zero.
Stale Olsen, ex direttore di carcere e del servizio di correzione norvegese, sul tema delle carceri:
Nel luglio 2011, un’esplosione ha colpito la citta di Olso, ferendo decine di persone e provocando otto vittime. Di seguito, 69 persone hanno perso la vita durante un campo estivo giovanile sull’isola di Utoya. Il colpevole di questi atti è il terrorista di estrema destra Anders Behring Breivik. In seguito ad eventi simili ci si aspetterebbe che i cittadini pretendessero provvedimenti più incisivi, come l’ergastolo o la pena di morte, e invece sono davvero fiero di rappresentare qui a questa conferenza un paese che ad un gesto così orribile e ignobile ha risposto con la “protesta delle rose”. Una protesta pacifica che ha riempito la piazza antistante alla più grande cattedrale di Oslo di milioni di rose, portate una da ogni persona: un gesto umano straordinario che ha mostrato l’enorme senso di coesione, solidarietà sociale e civiltà del mio paese. Non giudicate i nostri sistemi penitenziari sulla base di un “lupo solitario”: la Norvegia quest’anno sta riscrivendo le storie di altri 3799 carcerati, pronta a reintrodurli a pieno titolo nella società.
Davide Galliani, professore dell’Università degli studi di Milano, dipartimento di Studi Internazionali, Giuridici e Storico-Politici, sul tema dell’ergastolo:
Come si può considerare l’ergastolo una semplice pena quando più di 300 condannati all’ergastolo in Italia hanno supplicato per avere la loro pena tramutata in quella capitale? E la stessa cosa avviene in America dove il 10% dei carcerati preferisce la morte, piuttosto che, attraverso un appello, veder tramutata la propria pena in ergastolo. Come si può considerare questa pena civile e non una semplice tortura della società?
Anna Mahjar Barducci, autrice del libro “Italo- Marocchina. Storie di immigrati marocchini in Italia”, sul tema dell’integrazione:
La soluzione ai pregiudizi e all’incomprensione reciproca deve essere l’integrazione, ma non attraverso il solo multiculturalismo: questo diventa, senza integrazione, sinonimo di ghettizzazione. L’integrazione invece deve essere l’omogeneizzazione delle popolazioni nella diversità delle religione e della cultura d’origine, cosa che normalmente potrebbe portare alla scontro se non viene creato un sentimento di appartenenza comune, sentimento che deve trovare il luogo di crescita e maturazione nelle scuole.
E per terminare vi lascio con un commento di David Grossman, vincitore del premio Art for Peace Award 2012 della Fondazione Umberto Versonesi:
E’ la letteratura la vera arma. La letteratura ha il grandissimo dono di poter redimere l’animo umano macchiato dalla violenza: la scrittura ricorda alla mente in modo travolgente le emozioni, i ricordi, le persone e i sentimenti con cui abbiamo convissuto, aiutandoci ad uscire dalla folla, rendendoci individui, persone vere, uomini veri.
Lorenzo Porta