Del: 22 Aprile 2013 Di: Redazione Commenti: 0

L’elezione del Presidente della Repubblica segna un punto di non ritorno per il Partito Democratico e, soprattutto, ne certifica l’implosione e il fallimento della propria dirigenza. La scelta di Franco Marini e l’affossamento di Romano Prodi segnalano, in ordine crescente di gravità, il completo scollamento rispetto alla realtà, l’impotenza di una base sopraffatta dal tatticismo dei vertici e l’inconciliabilità tra correnti e agglomerati interni che si riconoscono in caporali e valvassori che non godono, al di fuori delle ristrette mura perimetrali del Partito, del più insignificante seguito elettorale.

Tralasciando l’analisi della sconfitta elettorale di febbraio, la vicenda drammatica e sconcertante di questi giorni pone all’attenzione dei commentatori e dell’opinione pubblica il futuro prossimo della principale forza riformista italiana e le possibili vie d’uscita da una imbarazzante e claustrofobica catastrofe politica. La prima e più ovvia richiesta che si leva dalla base militante inferocita del Partito è quella di un profondo, radicale e completo azzeramento e rinnovamento dei vertici, una questione già sollevata nel corso del 2012 da Matteo Renzi e riassunta nella categoria della “rottamazione”. Eppure questa necessità, resa evidente non tanto dalla sconfitta elettorale in sé, quanto dalla dimostrazione tangibile di come una dirigenza composta dalle stesse personalità di vent’anni fa sia incancrenita su lacerazioni, equilibrismi e ricatti sedimentati nel corso del tempo, non sembra rappresentare da sola una via di salvezza per il Partito stesso.

I problemi del Partito Democratico sono infatti più drammatici di quanto non si possa riassumere nel semplice problema della “rottamazione” dei vertici, ed è questo uno dei motivi per i quali tanti giovani impegnati attivamente per cambiare il Partito dalle fondamenta non si siano riconosciuti direttamente nella battaglia condotta da Matteo Renzi. Il Partito Democratico è nato dalla fusione di due esperienze politiche precedenti, i Democratici di Sinistra e La Margherita, due forze prosecutrici dell’esperienza comunista italiana mai del tutto convintamente convertitasi al Socialismo europeo e il cristianesimo sociale della Sinistra democristiana. Due forze che hanno scelto di fondersi in un esperimento politico azzardato quanto necessario: azzardato, perché in nessuna democrazia occidentale queste forze sono unificate in un solo partito, e necessario perché in Italia una forza socialdemocratica di tipo europeo è destinata a rimanere minoritaria rispetto a un corpo sociale sostanzialmente conservatore. Questa consapevolezza è anche il principale ostacolo, oggi, ad una eventuale scissione delle anime del PD come conseguenza della sua implosione.

Tuttavia la militanza del Partito Democratico è in maggioranza orientata su posizioni più radicali di quelle espresse dai vertici, geneticamente convertita all’antiberlusconismo, sensibile a richiami populisti e giustizialisti. È una base che rende difficile un discorso politico che superi la contrapposizione frontale bipolare alla quale siamo stati abituati nella Seconda Repubblica, una base che applaude convintamente i discorsi di Marco Travaglio, un opinionista di destra, perché sentimentalmente orientata al legalitarismo più che alla giustizia sociale. D’altra parte, se l’antiberlusconismo è un fattore ormai irrinunciabile per il popolo del centrosinistra, è anche responsabilità di una dirigenza che non è riuscita, in vent’anni, a sconfiggere politicamente Berlusconi, lasciando magari alla Magistratura (una Magistratura che non funziona affatto e che avrebbe assoluto bisogno di essere riformata) il compito di eliminare l’avversario politico.

Nonostante questo scollamento tra la base e i vertici, non si è ancora prodotto un vero e proprio smottamento del consenso elettorale nei confronti del Partito Democratico a vantaggio, ad esempio, dell’alleata Sinistra Ecologia Libertà di Nichi Vendola (a sua volto travolto dall’esito elettorale e dalla vicenda del Quirinale, proprio all’inizio di un percorso di avvicinamento finale al PD sancito dalla scelta europea dell’ingresso nel PSE), e questo per un sentimento di affezione nei confronti del Partito che sfiderebbe qualsiasi logica e qualsiasi spiegazione politologica. Tuttavia, la vicenda di questi giorni pone seriamente il problema di come riconnettere il sentimento della militanza con l’azione politica dei vertici. Posto che una dirigenza che si fa guidare dalla base non avrebbe motivo di esistere, è del tutto evidente che uno spostamento del baricentro del PD a sinistra e una vera e propria “rottamazione” della sua classe dirigente sarebbero egualmente apprezzati. Ma è proprio da queste due azioni che potrebbero nascere nuovi e più drammatici problemi.

Proviamo a indicare due nomi di personalità in grado, con la propria competenza e visione, di rifondare il Partito Democratico: Fabrizio Barca e Matteo Renzi. Di origini, formazione e visione culturale differenti (quasi opposte), sono entrambi oggi più che mai necessari per ridare una visione maggioritaria e sufficientemente ampia al Partito. Ma un PD guidato da queste due figure rischierebbe di ricadere molto rapidamente nella più completa paralisi, perché incapace di operare una sintesi tra la visione socialdemocratica e la visione liberale delle due anime costituenti. Si avrebbe una dirigenza nuova, ma non un’operatività politica efficiente, e il PD sarebbe ancora una volta di impiccio a qualsivoglia progetto politico di cambiamento, esattamente come in questi giorni. Da questa preoccupazione nasce l’ipotesi della scissione pilotata. Una scissione non traumatica ma costruita a tavolino consentirebbe di ricostruire due forze distinte e alleate, non più post-comunista l’una e popolare cristiana l’altra, ma socialdemocratica e liberale. Due partiti, il primo nettamente più a sinistra dell’attuale PD e amalgamato con SEL, guidato da personalità come Fabrizio Barca, Giuseppe Civati e Laura Boldrini, capace di dialogare con i movimenti ma ben inserito nell’alveo del Socialismo europeo, laico e radicato nel mondo del lavoro. Il secondo liberale, guidato da Matteo Renzi, capace di intercettare il consenso popolare da anni sequestrato dalla destra berlusconiana, propositivo e aperto. Due forze distinte ma saldamente alleate sulla base di un programma di governo chiaro, due forze capaci di affidare alle primarie il compito di scegliere una guida unitaria sul modello dell’Ulivo di Romano Prodi, fedeli alla strada parlamentare per il superamento delle differenze inconciliabili come accade nelle democrazie più mature, due forze capaci di riconnettersi con i sentimenti dell’elettorato e non più paralizzate da correntismi e rivalità interne.

Angelo Turco

 

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