Io & te, settimo romanzo dell’autore romano Niccolò Ammaniti, fa la sua comparsa nelle librerie nell’ottobre 2010. Due anni dopo, Bernardo Bertolucci (La tragedia di un uomo ridicolo, The Dreamers) sceglie di trarne un film, alla cui regia collabora lo stesso Ammaniti.
Il romanzo è un piccolo gioiello. Non conosce parola che sia inutile o immagine che sia di troppo. A partire dal titolo e, perché no, dalla copertina. Vi è capitato di leggere qualcosa di Ammaniti? E’ una specie di gorgo – ti trascina contro la tua volontà, contro le tue perplessità, le tue obiezioni fino all’ultima pagina, l’ultima riga. Ci arrivi pensando per metà del libro che, in tutta onestà, non ti è ben chiaro se ti stia piacendo o no. E intanto divori le pagine, famelico. Il pregio di Ammaniti è la sua incisività; è quel filo di foglio di carta che ti taglia il polpastrello: non capisci come sia successo e intanto il danno è fatto – sangue dappertutto. E di sangue, negli altri romanzi, ce n’è parecchio. Diciamo pure troppo. Se vogliamo trovargli un difetto, Ammaniti è truce. Cade spesso nel truculento, si crogiola nella violenza e rimane solo: il lettore, nauseato, lo abbandona alle sue esagerazioni (Fango).
Altrove invece Ammaniti incanala l’essenza conflittuale delle sue storie (e della vita) in meccanismi più fini e, in definitiva, più veri, più vicini al lettore. Mi riferisco a Io non ho paura o a Come dio comanda. E direi che Io & te s’inserisce con convinzione in questo secondo filone. Pure, con qualcosa in più.
La storia è molto semplice: Lorenzo Cuni, giovane quattordicenne della Roma bene, è affetto da un “disturbo narcisistico della personalità” che lo porta ad avere seri problemi di socializzazione al di fuori della cerchia familiare. Con l’intento di rassicurare la madre apprensiva, Lorenzo fa la pensata del secolo: finge di essere stato invitato da un gruppo di amici per la settimana bianca e invece di partire si imbuca in cantina con l’intenzione di stanziarvisi serenamente in compagnia di qualche scatoletta di tonno e del suo sé grandioso. Assurdo forse, ma ben orchestrato. Ad interrompere il suo idillio è Olivia, la sorellastra tossicodipendente, che piomba nella cantina in cerca di soldi prima, e di un posto dove dormire poi. I due, costretti ad una convivenza quanto mai spiacevole per entrambi, imparano pian piano a conoscersi e a dare un senso a quel legame di sangue che prima non ne aveva alcuno. E nell’incontro con l’altro scorgono entrambi una via di salvezza.
Questo il succo. La pennellata netta ma leggera con cui Ammaniti presenta i suoi personaggi dice tutto di loro senza impantanarsi mai in lambiccate analisi pseudo psicologiche, i dialoghi brevi e sempre efficaci parlano anche dei silenzi più profondi e significativi. La storia si racconta da sé e se il punto di vista è quello di Lorenzo poco importa, considerando che lui è il primo a non conoscersi – quale interpretazione potrebbe mai dare? Nessuna, ed è qui il gioiello: totale assenza di moralismo becero senza nulla togliere allo strazio della solitudine e alla sofferenza che porta con sé. Senza mitigare il senso di esclusione, di incomprensione, di enorme sbaglio che opprime i due protagonisti.
Il film. Fare un dettagliato elenco delle differenze tra romanzo e versione cinematografica mi pare uno spreco di righe. Vi basti sapere che sono poche e, in generale, non intaccano l’anima della storia. Le riprese sono lente e lasciano spazio alla riflessione, ai dettagli, agli sguardi. Gli scorci e i silenzi ci lasciano il tempo di capire – la difficoltà – in un mondo che oggi, scorrendo via come a velocità doppia, vuole smussare gli ostacoli, sfuocare i punti di inciampo, illuderci che sia più facile e più profittevole non fermarsi a pensare. Qui la lentezza ci intrappola e costringe alla meditazione. Gli attori sono fedeli allo spirito dei loro genitori d’inchiostro: spietatamente introverso lui, disperatamente rabbiosa lei. Olivia (Tea Falco) invade non solo la cantina ma anche la storia, lo schermo la testa. Lo spettatore vuole seguirla, capirla, prova a giudicarla ma finisce con l’accettarla, semplicemente. Solo che nel libro lei compare solo oltre la metà e questa è un’ingiustizia non indifferente nei confronti di Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori) che è lasciato molto più all’intuizione e alla sensibilità dello spettatore rispetto al suo corrispettivo stampato. All’incontro delle loro solitudini grandi è tuttavia dedicata la scena più delicata e struggente di tutto il film, decisamente più poetica di quella accennata nel libro: i due ragazzi sulle note di “Ragazzo solo, ragazza sola” – traduzione mogoliana di “Space Odditity” by David Bowie che sostituisce felicemente le “Montagne verdi” della scena originale – ballano un lento che è la sintesi pazzesca e dolcissima del rapporto speciale che nasce tra un fratello e una sorella.
Ho parlato di differenze non sostanziali tra le due versioni. E questo lascio detto a chi non ha letto il libro né visto il film. A costoro un saluto, nella speranza di aver quantomeno incuriosito.
A tutti gli altri invece una domanda: vi è sembrato giusto? Dico, il finale. Perché è vero che il finale non è tutto ma devo fare uno sforzo non indifferente per convincermi che davvero Ammaniti abbia acconsentito a questa “piccola modifica”. Sono convinta che il finale del libro, in cui Olivia muore di overdose a dieci anni dal loro incontro, avesse un senso e un senso ben preciso: che le promesse si fanno a se stessi e non agli altri, se si vuole avere qualche speranza di mantenerle. Cosi loro che si erano promessi reciprocamente di non drogarsi lei e di non sparire lui, non possono che tradirsi. Il finale aperto del film, che lascia presagire la salvezza come la perdizione (grazie a quella dose nel pacchetto di sigarette che Lorenzo incautamente recupera), ma tutto sommato con un certo ottimismo, mi ha lasciata interdetta. Tra tutte le modifiche che avrei potuto immaginare, questa mi è sembrata la più inopportuna. Sono la sola a pensarla così?
Delis Nisco