Del: 8 Giugno 2013 Di: Redazione Commenti: 0

“No, sapete…” troneggia mia madre dall’alto della sua sedia nel bar di quartiere “mio figlio sta facendo… Parkour!”, lo dice calcando l’ultima parola con un leggero accento francese, con quell’alone di mistero e quella spruzzata di boria alla so-tutto-io. Dopo poco aggiunge: “Sì, quello sport dei pazzi che si lanciano giù dai palazzi.” Come se questo bastasse a placare gli sguardi di incredulità e incomprensione delle sue amiche e sopratutto a non farmi seppellire sotto il tavolo accanto. Comunque, a parte mia madre — che dopo sei mesi di allenamenti ancora mi propone cavigliere, casco, mute da sub o armature medievali — ultimamente mi succede sempre più spesso di scontrarmi con la falsa idea di parkour nutrita da familiari, amici e conoscenti.

È una disciplina incentrata sulla conservazione della fluidità e della leggerezza nei movimenti durante lo spostamento

Il vero problema è che la gente non ha ancora associato a questo sport una definizione, una classificazione standard, ma solamente qualche sparuto video visto in TV dove viene proiettato solo il prodotto finale di un cammino ben più lungo che non coinvolge solo un miglioramento delle proprie doti fisiche, ma anche una crescita e una maturazione interiore.

Potremmo definire il parkour come una disciplina incentrata sulla conservazione della fluidità e della leggerezza nei movimenti durante lo spostamento da un luogo all’altro, affrontando in modo sicuro e personale qualunque ostacolo sia presente lungo il percorso, così da stimolare il praticante ad un utilizzo modulato delle proprie capacità.

Se si ha l’occasione di osservare di persona dei traceur o delle traceuse (rispettivamente i ragazzi e le ragazze che praticano questo sport) in azione, si nota subito, al contrario di quanto si pensi,  che la disciplina mette al primo posto la persona in sé e spinge verso una maturazione fisica e mentale in modo da mettere chi la partica nella condizione di avere un controllo totale sia sull’ambiente circostante sia sul proprio corpo, così da  superare l’ostacolo nella maniera più appropriata e sicura. Diventa quasi immediato il collegamento di questa filosofia con la stessa delle arti marziali: infatti in entrambe è presente un’ottica di maturazione costante, ottenuta attraverso l’impegno e la dedizione giornaliera; un’ottica che mette la crescita individuale come punto focale di un una visione non solamente sportiva, ma anche della vita in toto. Personalmente, sono rimasto colpito soprattutto dall’atteggiamento di grande solidarietà che si instaura fra i diversi praticanti, che cercano di sostenersi e aiutarsi l’uno con l’altro, progredendo in una visione di maturazione non competitiva che spinge verso la socialità, la coesione e la riappropriazione degli spazi della propria città.

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Andiamo però ora a sentire due ragazzi, Elisa Vermi e Francesco Mazzù, membri e istruttori di parkour nell’associazione MilanMonkeys, il gruppo più grande di Milano.

Da quanto tempo praticate parkour e come vi siete avvicinati a questo mondo?
Francesco: Pratico parkour da 6 anni: l’ho scoperto tramite il film Yamakasi e alcuni video su internet, sebbene ciò che colsi fosse una minima parte di quanto avrei poi scoperto essere veramente il parkour.
Elisa: Come tante persone ho scoperto il parkour tramite dei video online; incuriosita, ho cercato maggiori informazioni e ho conosciuto così i MilanMonkeys con cui, a Milano, ho iniziato ad allenarmi circa tre anni fa. Ho sempre fatto fin da bambina ginnastica/danza/acrobatica e la prima cosa che mi ha affascinato del parkour era l’idea di sfruttare l’ambiente urbano come una specie di “palestra a cielo aperto”.

Se doveste descrivere il parkour con parole vostre, come lo descrivereste?
Francesco: E’ una disciplina basata sul superamento degli ostacoli in tutte le condizioni grazie all’utilizzo di corpo, mente e cuore. E’ una disciplina che può essere praticata da tutti ed è molto versatile: permette infatti ad ogni individuo di crescere sotto molti aspetti, senza legarsi a schemi preimpostati.
Elisa: Il parkour è “l’arte dello spostamento” e consiste nell’allenare sia il corpo che la mente per imparare a muoversi da un punto ad un altro nel modo più efficiente, fluido e sicuro possibile, adattandosi all’ambiente circostante. L’obiettivo è migliorare se stessi e le proprie capacità, acquisendo consapevolezza dei propri limiti e spostandoli un poco più in là gradualmente. Nel parkour non c’è competizione: l’unica sfida è con se stessi; alla sua base infatti c’è il concetto di essere forti per essere utili, a se stessi come, in caso di bisogno, agli altri.

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Perché fare parkour?
Francesco: Perché la sua completezza porta ad una maggiore conoscenza della propria persona sotto diversi aspetti e perché inoltre la mancanza di competizione permette di capire quante potenzialità ogni persona abbia dentro di sé, senza dover essere per forza il più forte, veloce o resistente. Superare ostacoli non solo ti rende forte, ma ti fa comprendere di esserlo.
Elisa: Innanzitutto è un modo un po’ diverso dal solito per fare movimento e mantenersi in forma; inoltre, l’allenamento non è solo fisico, ma anche mentale: permette di imparare a conoscersi meglio e di costruire fiducia in se stessi. È un modo per riscoprire la città attraverso il movimento: guardare i luoghi che ci circondano con occhi diversi permette di sentirci più in armonia con l’ambiente troppo spesso sporco e trascurato che ci circonda, trasformando qualunque ostacolo e barriera architettonica in una possibilità da esplorare. È anche un ottimo modo per distrarsi dalla monotonia di tutti i giorni, conoscere nuove persone e condividere fatiche e soddisfazioni insieme!

Come ci si dovrebbe rapportare ad una disciplina come questa?
Elisa: La cosa fondamentale è affrontarla con la giusta mentalità, perché se praticata con incoscienza può risultare molto pericolosa. E’ importante iniziare con persone che hanno maturato una certa esperienza, grazie a diversi anni di allenamento e al confronto con le altre realtà nazionali e/o internazionali, e dedicare sopratutto molto tempo ad un’adeguata preparazione fisica oltre che al solo progresso della tecnica. Bisogna procedere gradualmente e senza fretta, imparando a conoscere e ad ascoltare il proprio corpo, acquisendo la consapevolezza dei propri limiti.

Quali sono le caratteristiche più importanti che un traceur dovrebbe possedere?
Francesco: Forza di volontà, coraggio, rispetto per se stessi e per gli altri, autocontrollo, umiltà, una tenacia pluriennale e capacità di autocritica.

E’ uno sport solo di (e per) giovani o ci sono anche praticanti over 50?
Francesco:
Come detto prima, è uno disciplina per tutti: basta solo applicarsi!

Elisa, il parkour, uno sport che viene associato comunemente alla forza fisica e alla potenza, può essere accessibile anche dalle ragazze? Conosci oltre a te altre traceuse? 
Elisa: Il parkour offre molte possibilità anche per le ragazze: non è solo allenamento di forza e potenza, ci sono molti altri aspetti come l’equilibrio, la precisione e la fluidità in cui spesso queste ultime sono anche più avvantaggiate dei maschi. Le possibilità di movimento sono molteplici e varie, basta imparare ad adattarsi all’ambiente e un po’ di creatività, conosco infatti diverse traceuses sia italiane che all’estero, molto brave e motivate.

Ci sono differenze fra i due sessi nell’approcciarsi ad un ostacolo? Quali sono le tecniche più usate dall’uno e quali dall’altro? 
Elisa: Le ragazze spesso sono più sensibili e insicure di fronte ad un ostacolo, perché magari si sentono più impacciate, meno forti o potenti dei maschi. Spesso hanno bisogno di un po’ più di sostegno e incoraggiamento; comunque bisogna ricordare che siamo tutti diversi, indipendentemente dal sesso!  Ognuno ha bisogno dei suoi tempi e tende a preferire certi movimenti rispetto ad altri, perché più sicuri, più efficienti o più graditi; non incidono solo le nostre caratteristiche fisiche, ma anche il nostro carattere. Personalmente ritengo che sia importante cercare di esplorare e perfezionare quanti più movimenti diversi, capendo però in base al proprio corpo e alla propria esperienza quali movimenti preferire in base al contesto.

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La disciplina del parkour è percepita nell’immaginario collettivo come sinonimo di irresponsabilità e avventatezza, ma è proprio così?
Francesco: Al contrario: tra i valori citati prima troviamo proprio il rispetto per sé stessi e per gli altri, che da solo la dice lunga sull’infondatezza di questo pregiudizio. Chi fa parkour lo fa per migliorarsi, per crescere, per diventare più forte: sa che ogni rischio che decide volontariamente di prendere, lo prende dopo ANNI di duro allenamento e come passaggio per la sua crescita personale. Accettare il pericolo come una costante routine, senza dargli il giusto peso e senza comprenderne la gravità, è il comportamento di chi non rispetta né se stesso né gli altri (le persone care ad esempio). Se metti in gioco la tua salute per qualcosa che è solo divertente, evidentemente qualcosa non quadra: nella vita ci si può benissimo divertire senza rischiare nulla.

Dove si può fare parkour? Ci sono strutture apposite? Quanto è importante la palestra e quanto invece l’allenamento outdoor?
Elisa: Si può fare parkour ovunque, con un po’ di creatività: anche delle righe sul pavimento offrono infatti la possibilità di fare vari esercizi. In città ci sono dei posti, che noi chiamiamo spots, maggiormente predisposti perché ricchi di muretti, sbarre, gradini, però in generale è anche molto bello esplorare luoghi nuovi imparando ad adattarsi a quello che si trova. Sono stati costruiti in alcune città dei “parkour parks” con strutture apposite, così come palestre per allenarsi indoor. Sicuramente sono utili, soprattutto a livello didattico e per allenare movimenti specifici, però penso che l’anima del parkour sia adattarsi alla città, non viceversa, costruendo strutture ad hoc.

La risonanza che sta ottenendo ora questo sport a livello internazionale, tanto da apparire sempre più spesso come protagonista di videogiochi, film e interviste, come sta modificando l’ambiente e i valori del parkour?
Francesco: Sicuramente ne sta migliorando la visibilità, anche se con una grossa —quanto errata— tendenza a esibirne solo il risultato “finale” rispetto a tutto l’allenamento che c’è dietro, e che raramente viene mostrato.

Insegnando questa disciplina, come vi sembra che i “nuovi arrivati” si pongano rispetto al parkour? Cosa vogliono da questo sport?
Francesco: Credo che la gente —data proprio la qualità della diffusione mediatica— si avvicini in gran parte con la voglia di emulare, specie i più giovani. Parlando con i ragazzi che frequentano i nostri corsi, ci sentiamo spesso dire che la disciplina che stanno praticando è molto diversa da quella che credevano essere.

In Italia il parkour si sta diffondendo sempre di più, diventando accessibile ad un numero maggiore di persone diverse

Vi è mai capitato di incontrare traceur/traceuse stranieri? Come ci si pone all’estero nei confronti di questo sport? E in Italia? Quale può essere il futuro del parkour italiano?
Elisa: Negli ultimi due anni mi sono allenata per diversi mesi a Londra, dove la realtà del parkour è molto viva e ampiamente sviluppata. La possibilità di confrontarsi ed allenarsi quotidianamente con ragazzi/e provenienti da tutto il mondo, condividendo la propria esperienza, è molto interessante e aiuta a crescere, sia come atleta che come persona. In Italia il parkour si sta diffondendo sempre di più, diventando accessibile ad un numero maggiore di persone diverse, sia per quanto riguarda il sesso che per l’età; ritengo che ciò sia molto positivo perché sono numerose le persone che possono trarre beneficio da questa disciplina. Spero infatti continui a crescere mantenendo intatti i valori che la caratterizzano.
Francesco: Mi sento ottimista al riguardo, malgrado in Italia stiano nascendo corsi che non solo non sono certificati, ma che mancano anche di un’autorevolezza acquisita realmente sul “campo”. Ci sono comunque un sacco di realtà italiane che danno anima e corpo per favorire una divulgazione corretta della disciplina su tutto lo stivale, e alcune di queste hanno al loro interno praticanti che si allenano da quasi 10 anni, una grossissima risorsa per quanto riguarda la divulgazione dei valori; in più, i nuovi praticanti sembrano essere più aperti alla disciplina e alle varie sfaccettature che questa comporta, che come detto prima non si vedono nella maggior parte dei video su Youtube, il che fa ben sperare.

Quali consigli dareste a chi si sta affacciando per la prima volta al mondo del parkour?
Francesco: Il mio consiglio è quello di avere grinta e voglia di migliorare, ma non fretta: imparare con calma, perché bisogna mirare a fare parkour per tutta la vita. Se qualcuno si rendesse conto che si sta allenando in maniera troppo intensa e che questo lo potrebbe portare a non reggere più (sia fisicamente che psicologicamente), allora dovrebbe porsi delle domande sul proprio modo di praticare. Riuscire a fare dei salti o delle tecniche significa avere un buon controllo del proprio corpo ed essere dei buon atleti, e per fare ciò, per quanto una persona possa non essere allenata, non ci vuole tanto,  ma non basta: capire se farli, quando farli, e perché farli, significa iniziare  effettivamente a capire —e praticare— questa disciplina.
Elisa: Non lasciarsi intimorire da eventuali pregiudizi legati all’età, al sesso o alla propria condizione fisica: non occorre essere forti, allenati o atletici, tutti possono fare parkour, proprio perché è una sfida soltanto con se stessi per migliorare le proprie capacità! Forza, agilità e controllo non sono prerequisiti, ma conseguenze di un buon allenamento. “Parkour doesn’t take strength, it makes strength” (“Il parkour non richiede forza, costruisce forza”).

Lorenzo Porta
Foto di JB London, Nasser Nouri, Nikos Koutoulas

 

Per ulteriori informazioni, visitate il sito dei Milan Monkeys, oppure la loro pagina su Facebook.

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