Del: 18 Settembre 2013 Di: Redazione Commenti: 0

Tre ore di rappresentazione meritano di essere motivate: lo spettatore ha il dovere di stare rispettosamente seduto sulla sua poltroncina, ma ha anche il diritto di domandarsi il perché; se il perché manca, allora qualcosa non ha funzionato. E in Borderline, purtroppo, si percepisconono più deficit.

Stiamo parlando di una pièce che trova spazio in Tramedautore, festival internazionale di drammaturgia contemporanea giunto alla sua XIII edizione, che quest’anno volge lo sguardo sul subcontinente indiano.
Nell’ambito delle iniziative dedicate al Pakistan, il Piccolo Teatro Grassi di Milano ospita l’autore Hanif Kureishi, messo in scena da una giovane compagnia multietnica guidata dalla regista Ana Shametaj, neodiplomata alla Scuola Civica Paolo Grassi. L’operazione è stata possibile grazie a una stretta collaborazione con l’Università Statale di Milano, con la Scuola Civica Paolo Grassi e con il Teatro Piccolo Orologio di Reggio Emilia. Scritto nel 1981, Borderline parla della comunità pakistana in Inghilterra ai tempi della Lady di Ferro, in un periodo in cui il Paese attraversa una grave crisi economica; è ambientato nel quartiere londinese di Southall nei giorni in cui la comunità pakistana organizza una protesta per reagire ad un attacco della polizia.

critici in erbaLe impressioni sono diverse: se da un canto alcuni attori, come gli interpreti di Amina e Ravi (davvero completi ed azzeccati nei loro ruoli) sintetizzano al meglio le loro funzioni sulla scena, le restanti performance recitative risultano sottotono, proprio come l’udibilità dei dialoghi; se da un lato l’assetto scenografico risulta gradevole, dall’altro ci si accorge che, andando avanti con la rappresentazione, di esso non si vede un ulteriore punto di forza su cui giocare dal punto di vista estetico; sebbene si apprezzi l’ironia e l’evoluzione dei personaggi sopra menzionati, non si può riscontrare pari spessore nei confronti degli altri, spesso gestiti con scene ripetitive e falsamente libidinose.

Questo risulta appesantito anche dal fatto che il secondo tempo manca quasi completamente di nerbo, scene lunghissime non si sviluppano mai appieno e diventa difficile ricreare il legame iniziale che si era potuto costituire, nella prima parte, con il palcoscenico e i suoi rappresentanti.
Forse l’eccesso di parole, di dialoghi, di battute veloci, di diretta trasposizione del testo di Kureishi, hanno soffocato la componente visiva, su cui troppo poco si è scommesso.

Quando sul palcoscenico teatrale qualcosa è sbagliato, lo spettatore per primo inizia a mettersi in discussione, a ragionare sugli intenti costitutivi dell’opera a cui ha assistito, a scrutare meticolosamente ciò che avrebbero potuto essere gli intenti dell’autore. Il dramma teatrale diventa così il dramma della mancata comprensione, si trasforma in dramma del fallimentare avvicinamento al testo ed ai suoi obiettivi, laddove ce ne siano.

Accantonando per un istante la pièce in questione con l’assoluta esigenza di non volerne fare il bersaglio della propria verve critica (anche perché non ce ne sarebbe ragione), in un discorso più generale, posso affermare che lo spettatore – a maggior ragione, forse, se pagante – deve avere un motivo per investire il proprio tempo e soprattutto la propria sensibilità in un luogo di cultura quale è il teatro, deve avere un motivo per fermarsi, abbandonare se stesso, per proiettarsi oltre. Qualora ciò non accada con esiti positivi, è lui stesso – in prima istanza – a perderne. E a tornare a casa con l’amaro in bocca.


Erika Sdravato

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