Del: 4 Febbraio 2014 Di: Sebastian Bendinelli Commenti: 0

L’umanità sta rapidamente correndo verso il prossimo stadio della sua gloriosa evoluzione, quello in cui il cervello si atrofizzerà e il numero delle sinapsi attive sarà pari a quello dei caratteri consentiti su Twitter: a quel punto molti problemi non si porranno più. Ma nel frattempo ci tocca vivere in una sorta di crepuscolo della ragione, un fiume fangoso in cui nuotano e cercano di affogarsi vicendevolmente tanta stupidità e pochi barlumi di raziocinio.

Beppe Grillo urla, probabilmente ad un comizio

Uno degli effetti più gravi di questa transizione verso l’ottusità globale è l’alterarsi di alcune percezioni elementari, come quella che permette di distinguere ciò che è semplice da ciò che è complesso, e dunque di comportarsi di conseguenza. Questa incapacità sempre più diffusa viene coscientemente sfruttata da chi, di volta in volta, ha la possibilità di trarne un vantaggio — e così si instaura un circolo vizioso, di cui sono vittime il dibattito politico, che assume caratteri di manifesta follia, e l’”opinione pubblica” che di questo dibattito dovrebbe essere protagonista attiva, piuttosto che passiva e istupidita destinataria.
Direi che in Italia un’opinione pubblica degna di questo nome nemmeno esiste.

Il risultato è carnevalesco, un mondo alla rovescia: la complessità viene abitualmente scavalcata e negata per fini essenzialmente demagogici, sostituita da un’ipersemplificazione che investe indiscriminatamente tanto i modi quanto i contenuti del discorso politico. Tutto tende alla semplificazione, all’abbreviazione, allo slogan, al tweet. Così è possibile che il leader del PD sintetizzi l’accordo raggiunto sulla legge elettorale e sulle riforme istituzionali con un’”infografica” di questo genere — “Ciao ciao province”. (Avrei potuto dire direttamente: così è possibile che il leader del PD sia Matteo Renzi).

IPERSEMPLIFICAZIONE: SE VINCE X, ALLORA SUCCEDE Y

È evidente che non si tratta di materie facili, che si possano liquidare con poche parole frettolose e qualche metafora calcistica: da queste riforme dipende l’assetto costituzionale dell’Italia futura, non proprio bazzecole. Eppure vediamo un altro grande partito, il M5S, che per decidere una proposta di legge elettorale da presentare in Parlamento indìce delle ridicole consultazioni online, come se qualunque internauta casuale potesse davvero avere un’opinione chiara e autonoma su ripartizione di seggi, collegi plurinominali e soglie di sbarramento. Difendere la complessità che è insita per natura nei meccanismi di funzionamento degli Stati non è elitismo o tecnocrazia: significa difendere la profonda essenza della democrazia rappresentativa, la quale (qualcuno lo spieghi ai grillini) permette che i cittadini siano in certa misura sovrani senza dover essere per forza esperti di diritto costituzionale, economia, politiche agricole e quant’altro. La bellezza della rappresentanza e della delega, tanto vituperata.

D’altra parte la complessità viene strumentalizzata con intenti opposti (ma risultati uguali): escludere il privato cittadino (che in greco antico si dice idiòtes, e lo slittamento semantico non è casuale) dalle decisioni politiche – condotte in nome di ragioni imperscrutabili –, togliergli il diritto di parola circa quello che dovrebbe essere il suo stesso interesse, e così difendere i privilegi di pochi a danno di molti. È un problema antico, quello degli arcana imperii, che oggi tuttavia assume dimensioni preoccupanti e non sufficientemente denunciate – a differenza di quanto accade per il suo opposto. L’abbiamo visto con la preminenza della “tecnica” sulla “politica”, che si è tradotta in un accentramento del potere verso organismi sovranazionali e non soggetti al controllo popolare, e talvolta anche nell’instaurazione di governi apertamente “tecnici”, o di simili surrogati (com’è quello che ci ritroviamo). Spero non ci sia bisogno di specificare: quella tra tecnica e politica è una contrapposizione priva di senso, e “tecnocrazia” non è che un altro nome, poco meno odioso, per “oligarchia”.

Pietro Ichino, giuslavorista, ha denunciato l’incomprensibilità delle leggi italiane

La strumentalizzazione della complessità, con il timore reverenziale che intende suscitare (pensiamo allo spread), cerca di negare una delle “semplicità” più intuitive e pericolose per il potere costituito e il privilegio: la semplicità della giustizia. Così, di fronte a questioni di giustizia su cui nemmeno ci sarebbe da discutere, come l’imposizione di un tetto ragionevole agli stipendi dei manager pubblici (almeno quelli pubblici!), o l’incompatibilità tra certe posizioni amministrative di rilievo (fa ridere come il governo sia caduto dalle nuvole di fronte al caso Mastrapasqua), o il taglio delle cosiddette “pensioni d’oro”, vengono agitate farraginosità legislative e burocratiche, “diritti acquisiti”, lentezze decisionali, e così via. Perlopiù in malafede: pensiamo, per esempio, al contrasto palese tra l’impossibilità di intraprendere un percorso di riforme costituzionali serie, per cui si adduce l’eccessiva severità dell’articolo 139 (che addirittura si è tentato di modificare), e i tempi record con cui — nel silenzio assoluto dei mezzi di informazione — in Costituzione è stato inserito l’obbligo del pareggio di bilancio. Oppure pensiamo all’oscurità, in gran parte gratuita e non necessaria, del linguaggio burocratico e legislativo. Recentemente Pietro Ichino ha denunciato che i parlamentari nella maggior parte dei casi votano testi che non capiscono. Il che risulta evidente anche da episodi recenti, come quello del cosiddetto decreto IMU-Bankitalia. Verrebbe da chiedersi a questo punto dove risieda il potere legislativo.

Quello tra complessità autentica e complessità strumentale è un confine su cui è difficile muoversi, ma marcare le differenze è necessario: pretendere parlamentari e governanti competenti nelle materie su cui sono chiamati a legiferare non significa sostenere l’oligarchia di pochi tecnici “azzeccagarbugli”; allo stesso modo, sostenere un’azione politica che sia orientata verso un’idea fondamentale di giustizia (e non solo verso la ratio economica), che riconferisca centralità al ruolo del cittadino e dignità al politico, non vuol dire abbandonarsi alla bestialità semplificatoria, tanto più preoccupante quando sfrutta l’ignoranza per raggiungere obiettivi poco chiari. Marcare le differenze, d’altronde, è l’attività fondamentale del pensiero critico — questo sconosciuto.

Sebastian Bendinelli
@se_ba_stian

Sebastian Bendinelli
In missione per fermare la Rivoluzione industriale.

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