Certo è che il 9 marzo 1954 a Belfast fu un giorno come tanti, per molti; tuttavia proprio quel 9 marzo ha dato i natali ad una delle più grandi, forti e tenaci personalità del secolo scorso: Bobby Sands, attivista nordirlandese con cittadinanza britannica, volontario della PIRA (Provisional Irish Republican Army), associazione paramilitare impegnata dal 1969 nella difesa dei diritti dei cittadini cattolici nell’Irlanda del Nord —in particolare, nelle nevralgiche Derry e Belfast; questa parte di popolazione – ben lungi dall’essere una minoranza – era fortemente discriminata dalle autorità inglesi che controllavano il territorio, dai fedelissimi alla Corona, dai protestanti con cui si trovava necessariamente a convivere, da un sistema politico e sociale atto ad evitare che la minoranza – di nome e non di fatto – nazionalista irlandese e cattolica si consolidasse, a discapito degli espiantati-impiantati britannici. L’associazione auspicava la liberazione dalle intransigenze repressive inglesi, nonché la ricostituzione di un unico stato autonomo, repubblicano, irlandese —realtà disgregata a seguito del Trattato del 1921. I metodi adottati erano tutt’altro che pacifici: in un clima da vera e propria guerra civile, attentati e violenze facevano da pane quotidiano.
La situazione in quegli anni era molto calda; basti rammentare che, dopo la divisione forzata del Paese in Free State (Repubblica d’Irlanda) ed Irlanda del Nord —stato artificiale, segnato da confini artificiali, abitato da una fantomatica maggioranza filoinglese altrettanto artificiale, conseguenza del Trattato del 1921— abrogata la legislazione fino ad allora in vigore, vennero introdotte le repressive Leggi Speciali (Special Powers Act), che rimasero in vigore per cinquant’anni e che conferivano alle forze di polizia poteri eccezionali, tra cui: la possibilità di arrestare senza mandato, di imprigionare senza accusa né processo e negare il ricorso all’Habeas Corpus o alla Corte di Giustizia, di perquisire le abitazioni senza mandato (di giorno e di notte), di vietare riunioni e assembramenti di qualsiasi tipo, di ricorrere alla flagellazione come punizione, di impedire l’apertura di un’inchiesta dopo la morte di un prigioniero (casi molto frequenti e, naturalmente, accidentali), di applicare la censura e, in generale, di arrestare chiunque agisse in maniera premeditata “per portare pericolo alla conservazione della pace e al mantenimento dell’ordine pubblico in Irlanda del Nord”.
Le manifestazioni non-violente represse nel sangue
Il clima di terrore e il mancato rispetto dei diritti civili fondamentali —fatti che andavano a ledere gravemente la maggior parte della popolazione autoctona e soprattutto i giovani, che faticavano a trovare un impiego e una casa, in quanto tutte le prospettive di lavoro e di promozione sociale erano strettamente riservate ai non cattolici— portarono nel 1967 alla nascita di un movimento, la Northern Ireland Civil Rights Association (NICRA), organizzazione apartitica che, tramite dimostrazioni non-violente, chiedeva che in Irlanda del Nord venissero attuate le riforme più elementari; tra queste, la formulazione di una legislazione che ponesse fine alla discriminazione nel mondo del lavoro, l’abolizione dello Special Powers Act, la riforma delle amministrazioni locali e lo scioglimento delle B-Special, forze speciali di polizia impegnate sin dal 1920 in una serie di attacchi ai danni di quelli che erano ormai diventati i “ghetti cattolici”, separati dai quartieri protestanti da alte mura ben infiocchettate –sulla cima– di filo spinato.
Il Movimento per i Diritti Civili si scontrò fin dall’inizio con la violenta repressione esercitata dai soldati inglesi e dalla polizia locale. I suoi membri vennero arrestati, incarcerati senza processo; erano continue le aggressioni della polizia, che interveniva alle manifestazioni per disperdere i partecipanti con la forza. Tutti quei giovani – ed erano molti – che non confluivano in associazioni pacifiche come la NICRA entravano a far parte della PIRA, o dell’IRA, veri e propri eserciti addestrati alla guerriglia urbana, che si occupavano di difendere i quartieri cattolici di Belfast, sovente messi a ferro e fuoco dalla RUC (Royal Ulster Constabulary)— polizia dell’Ulster, per la maggior parte protestante, attiva fino al 2001.
Il climax ascendente di violenze trovò un tragico epilogo al termine di una manifestazione pacifica tenutasi a Derry il 30 gennaio 1972, con l’uccisione di tredici civili da parte dei soldati inglesi: era il “Bloody Sunday“. Il terribile evento da un lato consolidò ed accrebbe il sostegno al Movimento per i Diritti Civili, mentre dall’altro spinse un sempre maggior numero di giovani verso associazioni come l’IRA, verso lo scontro fisico e la soluzione violenta.
Le proteste dal carcere: la blanket potest, la no-wash protest, gli scioperi della fame
Nel frattempo, nelle carceri gremite, i prigionieri venivano torturati sistematicamente per mezzo di tecniche sofisticate e all’avanguardia importate dalla vicina Inghilterra. La maggior parte delle persone arrestate in quel periodo, tra la fine degli anni Sessanta e gli Ottanta, risentì per tutta la vita dei maltrattamenti subìti. Ciò fu denunciato dal governo dell’Eire (Repubblica d’Irlanda) davanti alla Commissione europea per i Diritti Umani di Strasburgo che, in un rapporto del 1976, definì i metodi utilizzati dalla RUC “trattamento disumano e di tortura”, in aperta violazione dei princìpi della Convenzione europea per i diritti umani. Ciò fu confermato anche da un’inchiesta del 1977 di Amnesty International. Tuttavia, il rapporto di una commissione nominata dallo stesso governo inglese scaricò ogni responsabilità sui singoli agenti della RUC; era il 1979. L’IRA, tuttavia, ritenne che l’utilizzo delle tecniche oggetto d’accusa non fosse in realtà mai cessato.
Con l’estendersi e l’aumentare della repressione, le reazioni di IRA e PIRA si fecero sempre più violente, arrivando così a sfociare in una vera e propria guerra civile che, tra il 1969 ed il 1993, costò 3285 vite, tra membri delle forze di sicurezza e popolazione civile. Nel 1982 i repubblicani imprigionati in Irlanda del Nord erano circa 1300. Definiti dalle autorità inglesi “terroristi” e “criminali”, per la popolazione nazionalista erano prima di tutto “prigionieri politici”. Va precisato che nessuno di questi prigionieri era stato sottoposto ad un regolare processo; tutti erano invece stati giudicati da tribunali speciali (Diplock Courts), presieduti da un solo giudice, senza giuria alcuna. Dei circa 1300 prigionieri repubblicani, solo 328 godevano di quello che le autorità carcerarie definivano “status di prigioniero politico”. Ai restanti 966 tale status era negato, dal momento che erano stati incarcerati nel periodo successivo a quello in cui il governo britannico aveva deciso di abolirlo (1976).
Per contestare il mancato riconoscimento dello status di prigioniero politico, oltre che per le durissime condizioni carcerarie e le brutalità inferte dai secondini, i prigionieri intrapresero diverse proteste: la “blanket protest”, che consisteva nel rifiuto di indossare l’uniforme della prigione e nel coprirsi solo con una coperta; la “no-wash protest”, per cui rifiutarono anche di andare alle docce e lavarsi, per evitare di esporsi alle efferate violenze. Le guardie, a loro volta, reagirono: si astennero semplicemente dal rimuovere i buglioli, e anzi, li svuotarono sul pavimento all’interno delle celle. I detenuti furono così costretti a convivere con urina, escrementi e rifiuti, in condizioni di estremo degrado.
Teatro di tutto questo furono in particolare le carceri di Armagh ed i famosi H-Blocks di Long Kesh, ribattezzati “Maze” (labirinto), dove, tra gli altri dissidenti, era rinchiuso Bobby Sands.
Nel 1980 alcuni prigionieri decisero di portare al culmine la loro protesta, intraprendendo uno sciopero della fame. Le richieste avanzate dagli hunger strikers erano state sintetizzate in cinque punti (Five demands):
- Diritto di indossare i propri vestiti e non la divisa carceraria.
- Diritto di non svolgere il lavoro carcerario.
- Diritto di libera associazione con gli altri detenuti durante le ore d’aria.
- Diritto di avere reintegrata la remissione di metà della pena, diritto che avevano perduto in conseguenza delle proteste.
- Diritto a ricevere una visita, un pacco postale e ad effettuare un’attività ricreativa a settimana.
Il governo britannico fece promesse che poi non mantenne, convincendo così i detenuti con l’inganno a porre fine allo sciopero. Ma questi ne intrapresero un secondo, il 1 marzo del 1981; e questa volta i prigionieri dei Blocchi H erano decisi a non farsi raggirare nuovamente dal governo di Londra. Diversi enti e personalità cercarono di svolgere un ruolo di mediazione tra hunger strikers e autorità; ma a nulla valsero i numerosi tentativi. La risposta del Primo Ministro inglese Margaret Thatcher fu la seguente: “Riteniamo che una mediazione tra governo e prigionieri, anche se condotta da organismi di altissimo livello, non rappresenti la strada giusta da percorrere”. Dunque, che il massacro e la tragedia continuino.
Il rifiuto per lungo tempo di qualsiasi trattativa diretta con i prigionieri portò alla morte di altri dieci detenuti.
Bobby Sands: “Non potranno uccidere il nostro spirito”.
Primo di quei dieci, Bobby Sands: nato a Belfast quel 9 marzo 1954, trascorse infanzia e adolescenza spostandosi continuamente con la famiglia tra diverse zone della città a causa delle ripetute intimidazioni che giungevano dai lealisti protestanti. Lo troviamo presto tra le file della PIRA, a rivendicare i diritti dei cittadini cattolici e ad opporsi con forza alla presenza inglese in Irlanda del Nord. Ha solo 18 anni, ma naturalmente è già noto alle autorità locali.
Condannato nel 1976 a quattordici anni di detenzione nonostante la mancanza di prove, ha trascorso gli ultimi quattro anni e mezzo della sua vita nei Blocchi H, l’incubo di Long Kesh, situati a pochi chilometri da Belfast. Le condizioni nel carcere erano durissime. Nel luglio 1980, fu permesso all’arcivescovo O’Fiach di visitare i Blocchi H. Egli così descrisse lo stato di degradazione nel quale vivevano oltre 300 blanket men: “Lasciando da parte l’essere umano, difficilmente si lascerebbe vivere un animale in tali condizioni. L’immagine che più si avvicina a ciò che ho visto è quella delle centinaia di homeless che vivono nelle fogne di Calcutta”.
Sands cominciò lo sciopero della fame il 1 marzo 1981 e morì 66 giorni dopo, il 5 maggio 1981. Prima che si ponesse fine allo sciopero, altri nove uomini si sacrificarono, uno dopo l’altro. Sia le autorità inglesi che quelle dell’Irlanda del Nord hanno sempre negato che maltrattamenti e torture abbiano avuto luogo a Long Kesh, ma non sono state in grado di confutare la quantità di documenti, pubblicati in libri e giornali, in cui tali torture disumane venivano denunciate.
Bobby Sands scrisse quello che anni più tardi sarebbe diventato il suo libro-diario-testamento ideologico in una piccola cella fetida, maleodorante, dai muri ricoperti d’escrementi, servendosi solo di pezzi di carta igienica e di un refill di penna biro. I foglietti furono fatti uscire clandestinamente dal carcere per un certo periodo. Egli fu guida, esempio e modello per moltissimi altri prigionieri politici che subirono le stesse ingiustizie, con e dopo di lui.
Quando morì aveva solo 27 anni, oggi ne avrebbe compiuti 60; ed è giusto ricordare la sua dedizione, il suo coraggio e il suo sacrificio, l’amore inestinguibile per la giustizia e la sua forza.
Ecco il suo Canto di Libertà:
«Sono un prigioniero politico.
Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra.Io difendo il diritto divino della nazione irlandese all’indipendenza sovrana, e credo in essa, così come credo nel diritto di ogni uomo e donna irlandese a difendere questo diritto con la rivoluzione armata. Questa è la ragione per cui sono carcerato, denudato, torturato. […] L’Irlanda non conoscerà mai pace fino a quando la presenza straniera e oppressiva della Gran Bretagna non sarà schiacciata, permettendo a tutto il popolo irlandese di controllare, unito, i propri affari e di determinare il proprio destino come un popolo sovrano, libero nella mente e nel corpo, definito e distinto fisicamente, culturalmente ed economicamente.
Credo di essere soltanto uno dei molti sventurati irlandesi usciti da una generazione insorta per un insopprimibile desiderio di libertà. Sto morendo non soltanto per porre fine alle barbarie degli H-Block o per ottenere il giusto riconoscimento di prigioniero politico, ma soprattutto perché ogni nostra perdita, qui, è una perdita per la Repubblica e per tutti gli oppressi che sono profondamente fiero di chiamare la “generazione insorta”.
[…] Se non riescono a distruggere il desiderio di libertà non possono stroncarti. Non mi stroncheranno perché il desiderio di libertà e la libertà del popolo irlandese mi stanno nel cuore. Verrà il giorno in cui tutto il popolo irlandese avrà il desiderio di libertà. Sarà allora che vedremo sorgere la luna».
Marta Clinco
@MartaClinco