Del: 7 Aprile 2014 Di: Ilaria Guidi Commenti: 0

Siamo nel 1949. Nove amici uniti dalla passione per la musica si ritrovano, da qualche parte, a New York. Per essere esatti, si ritrovano a casa di Gil Evans. Vi dico solo che tra loro c’è anche Miles Davis, o meglio, c’è soprattutto Miles Davis. Cosa fanno questi nove amici? Compongono musica.
Proprio da questi incontri sono nati brani come “Move”, “Moon dreams”, “Venus de Milo”, “Boplicity”, e molti altri; brani che, però, saranno raccolti in un unico album solo nel 1957, il mitico Birth of the cool.

Da quel 1949 iniziò ad essere concepito non solo un nuovo album ma, come suggerisce il titolo dello stesso, anche il sound giusto per un nuovo sottogenere del jazz, il “cool jazz”.
Si trattava di un sound più morbido, meno invasivo e penetrante rispetto al precedente bebop, un sound che potesse ricordare un coro di voci umane, un coro fatto di nove strumenti che si amalgamassero perfettamente tra loro come fossero solo quattro: «Io dicevo che doveva essere il suono di un quartetto, con voci di soprano, alto, baritono e basso; dovevamo avere strumenti con voce di tenore, di mezzo alto e di mezzo basso», spiega Miles Davis nella sua autobiografia.

Se tutto ciò vi fa pensare a un’orchestra di musica classica, beh, non pensiate di essere sulla strada sbagliata, o almeno, non del tutto. Si può dire, infatti, che questo “cool” prendesse qualcosa proprio da quella musica classica; si può dire che a quello che era stato il jazz fino a quel momento si fosse aggiunto un elemento del passato, che fu recuperato e riadattato ai tempi che correvano. Si mischiò cioè al bebop, e lo rese ben più orecchiabile di prima, e anche più raffinato.

Questa mescolanza di generi è piuttosto evidente nel disco: alcuni brani, infatti, sono ancora caratterizzati da quel modo di suonare più aggressivo, tipico del bebop, con un ritmo più veloce e suoni più forti, mentre altri pezzi dell’album rappresentano a pieno quel sound morbido, sono più pacati, trasmettono una certa calma e tranquillità.
Uno di questi è “Venus de Milo”, sebbene non sia l’unico. Ascoltatelo: nella melodia voi non notate una certa somiglianza con la canzoncina che canta Romeo ne Gli Aristogatti? (Passatemi il riferimento cinematografico da cinefili di un certo spessore). Mi sbaglierò, ma quando ascoltai il brano per la prima volta, fu la prima cosa che mi venne in mente.

Ma bando alle ciance. Questo disco segnò in pratica l’inizio di un nuovo modo di fare jazz, segnò la nascita del cool ma, paradossalmente, allo stesso tempo ne segnò anche la morte. Miles Davis, già grandioso per la sua ecletticità musicale, in quanto rappresentò ognuna delle fasi del jazz ―ecletticità che culminerà nella svolta elettrica di Bitches Brew (album del 1969)― fu in grado di dare origine a qualcosa di nuovo, ma anche di distruggerlo.
Infatti, dopo Birth of the cool nessuno suonò più quel tipo di jazz, nemmeno lo stesso Miles e la sua band, se pur ne saranno in parte influenzati nelle opere postume. Il cool è nato e morto con i suoi creatori, ha rappresentato una fase del jazz, come del resto hanno fatto anche tutte le altre (bebop, swing, blues, jazz modale…), con la differenza che queste sono sopravvissute anche negli anni successivi, ma il cool, almeno dal punto di vista musicale, ha avuto vita breve.

Ilaria Guidi

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