Una sera dello scorso dicembre incontravo per caso il giornalista Gaspare Di Sclafani. A questo primo incontro, su mia richiesta, ne è seguito un altro: trovate qui di seguito il risultato di una lunga ma intensa e piacevole chiacchierata del primo aprile.
Nato a Venezia nel 1943, Gaspare Di Sclafani ha intrapreso l’attività giornalistica nel 1968 presso La Notte di Milano, dove ha ricoperto diversi incarichi: vicecapocronista, capocronista, caporedattore. È stato poi caporedattore delle Grandi Opere della Rusconi. Corrispondente per oltre un decennio di un quotidiano svizzero, ha collaborato con numerose testate — tra cui Il Resto del Carlino, Il Tempo, Scienza & Vita, Chi, Visto — con la Associated Press, con la Rai e con Italia Uno. Per dieci anni inviato speciale del settimanale Gente, ha collaborato con Vittorio Feltri fin dal primo numero del quotidiano Libero.
Incipit
Ho cominciato per caso; sì, ai miei tempi si poteva diventare giornalisti anche per caso, e così è accaduto a me. Facevo il carabiniere. Era periodo di manifestazioni, frequentissime; in una di queste occasioni, ho conosciuto quello che poi sarebbe diventato un collega del Corriere della Sera: mi ha informato del fatto che alla Notte stavano cercando cronisti, e che l’allora direttore Nutrizio aveva proprio un debole per i carabinieri, dunque avrei potuto essere in qualche modo avvantaggiato. Naturalmente, pochi giorni più tardi mi sono presentato in redazione alla Notte – in divisa da ufficiale. Ai fattorini all’ingresso ho chiesto di parlare col direttore, ma continuavano a ripetere che non era possibile e che, tutt’al più, avrei potuto vedere il caporedattore. Ho insistito: “Devo parlare col Signor Nutrizio, è un fatto importante, importantissimo, e un fatto privato”. Alla fine — forse per quel noto fascino-della-divisa — sono stati costretti a condurmi da lui. Inizialmente, vedendomi entrare, mi è parso decisamente spaventato, allarmato: non erano ancora gli Anni di Piombo, ma era già comunque periodo di contestazioni, disordini, per cui trovarsi un ufficiale dei carabinieri al giornale significava possibilità di grane. Ma l’ho subito rassicurato: “Sono qui perché voglio fare il giornalista, e ho saputo che siete in cerca di redattori”. Si è tranquillizzato, abbiamo preso a chiacchierare —una chiacchierata durata a lungo. Gli ho raccontato tutto di me, la mia vita. E a fine colloquio, come se nulla fosse, sono passato dall’amministratore a firmare: ero stato assunto.
Anche ai miei tempi, comunque, prima di diventare professionisti, si era praticanti: bisognava fare almeno diciotto mesi di praticantato. Ancor prima, quasi tutti passavano per un lungo periodo di abusivato: si collaborava con i giornali, si entrava addirittura nelle redazioni, si scriveva –e non sarebbe consentito – dietro compenso forfettario, sotto falsi nomi o pseudonimi —quando andava bene, apponendo le proprie iniziali a fine articolo. Io stesso credo di aver utilizzato più di una dozzina di nomi fasulli; dipendeva molto da dove lavoravi, con chi lavoravi, etc. Usavo anche nomi femminili, tra cui Laura Stiller, tutte le volte in cui scrivevo un pezzo che a mio parere doveva avere un taglio prettamente femminile, a partire dall’autore stesso. Alcuni articoli di scarsa importanza nemmeno venivano firmati. Era normale, consuetudine in tutti i giornali. Al di là di ciò che è successo a me, era comunque relativamente facile entrare a far parte di un giornale, e abbastanza facile —dopo aver appreso i fondamenti del mestiere— passare da una redazione all’altra. Nel corso della mia carriera ne ho cambiate almeno sette, otto: quotidiani, settimanali, mensili, di nuovo quotidiani, e così via.
Redazioni di piombo
A raccontarlo oggi, i giovani non ci credono. Non ci credono perché veramente pare impossibile. In quel periodo sono stato prima vicecapocronista, poi capocronista. Gestivo una redazione con più di venti ragazzi, sempre molto giovani, bravi, pieni d’entusiasmo. La quantità di lavoro, la fatica, erano terribili.
Anzitutto, non avevamo orari: quando ho iniziato io, non esistevano. Non c’erano straordinari, si lavorava il sabato, la domenica, il giorno di Natale. Non si timbrava, né si firmava nulla, ma scendeva la sera e non sapevi mai quando saresti tornato a casa. Era il periodo delle manifestazioni giovanili, della contestazione studentesca, delle violenze e della tensione; soprattutto il venerdì ed il sabato, magari anche la domenica, immancabilmente verso le sei del pomeriggio iniziavano le manifestazioni che partivano dalla Statale o da altre zone nevralgiche del centro; non si sapeva fino a che ora sarebbero andate avanti e, soprattutto, come sarebbero andate a finire; sempre immancabilmente, macchine incendiate, molotov nell’aria, cariche della polizia, brutalità e scontri — tutti fatti di cui poi bisognava far cronaca per il giorno seguente: elenco dei feriti, fotografie, bilancio conclusivo della portata dell’evento, etc. Si finiva quando tutto tornava a quella apparente tranquillità. E non solo i giornalisti, ma anche le persone comuni avvertivano la forte tensione: ricordo che la maggior parte dei ristoranti di Milano teneva le porte chiuse; per entrare era necessario suonare il campanello: controllavano chi fosse e decidevano se aprire oppure no. C’era un clima di terrore ed incertezza pesante e soffocante. Ricordo la vicenda di un fotografo – mi pare fosse di Bergamo – giunto in città probabilmente per un fotoreportage. Passava vicino alla Statale, tutto ben vestito: cravatta, abito, scarpe lucide e a punta; e quel genere di abbigliamento, quel tipo di scarpe, per gli studenti di sinistra che bazzicavano l’Ateneo in quegli anni avevano un significato fin troppo chiaro. Lo hanno riempito di botte.
Quando salivo su un tram, su un qualsiasi mezzo pubblico, e portavo con me una copia della Notte o di un giornale che sapevo esser considerato di destra, in genere lo nascondevo in mezzo agli altri dieci, quindici della “mazzetta” che ci veniva consegnata ogni giorno: lasciavo ben in vista Il Manifesto, L’Unità, etc. Non mostravo mai alcune testate, avrei corso grossi rischi. Preciso che ovviamente da una parte c’era tutta quella frangia d’azione costituita dal movimento studentesco e affini, quindi tutti i gruppi di sinistra — mentre dall’altra c’erano tutti quelli di destra, altrettanto agitati e affatto tranquilli. Ognuno controllava una zona; se passavi da San Babila con l’eskimo correvi il rischio di essere aggredito.

Il Giornalista Tenente
Avevo sempre avuto intenzione di diventare giornalista, ma ancora non avevo ben chiaro cosa fare realmente della mia vita. Sono approdato alla Notte per caso perché ho conosciuto per caso quello che poi sarebbe diventato un collega, altrimenti mi sarei di certo dato da fare in qualche altro modo. A me è andata bene, sono stato fortunato. Stavo ancora facendo il servizio militare: quando ho cominciato, lavoravo ancora in divisa; al mattino passavo al giornale, scrivevo, mi davo da fare — poi magari nel pomeriggio mi ritrovavo a seguire un corteo con gli altri carabinieri. Per questo, per moltissimo tempo fra i colleghi sono stato “Il Tenente”. Anche adesso c’è qualche fotografo d’allora che, quando mi incontra, dice: «Ehi ciao, Tenente! Come stai?».
Più in generale, credo che sia fondamentale in questo campo saper sfruttare sapientemente le buone occasioni. E solitamente queste capitano per caso. Nel momento in cui, per chissà quale ragione, si viene a conoscenza di una notizia particolarmente appetibile che, si ipotizza, nessun altro conosce, e che si crede proponibile ad un giornale, ecco: quello è il momento giusto per recarsi in una redazione – magari di un quotidiano importante – per offrire la propria storia.
Del nostro primo incontro, ricordo che mi avevi detto di avere intenzione di fare la giornalista, e ricordo anche di averti scoraggiata, dicendoti che c’è troppa concorrenza. Ripensandoci, poi, me ne sono pentito: se qualcuno mi avesse scoraggiato all’inizio, probabilmente nemmeno io avrei tentato. E secondo me è il mestiere più bello che si possa fare, in modo assoluto. Certo, è molto diverso da com’era una volta, quando ero giovane. È tutto molto più complesso. Ho lavorato per dieci anni a Libero con Feltri; in redazione c’erano sempre ragazzi molto giovani, tutti molto bravi, molto preparati, ma molti di loro per mesi e mesi hanno lavorato senza ricevere alcun compenso, semplicemente per imparare il mestiere — fatto che in teoria non sarebbe nemmeno consentito: bisogna essere in qualche modo assunti regolarmente, o aver siglato un qualunque contratto. Siamo in troppi. Siamo in troppi e, per di più, la carta stampata è in crisi. Inoltre l’Ordine dei Giornalisti, ormai, non fa altro che conferire un biglietto da visita che recita: “giornalista professionista”, tutto qui. Poi –intendiamoci– sono affari tuoi. Inoltre l’Ordine gestisce i fondi, dovrebbe essere super partes, regolare le controversie tra i giornalisti ed il mare magnum di tanti presunti probiviri diffamati e ingiustamente calunniati, discernere meglio giornalisti professionisti e pubblicisti, categoria che, a parer di molti, avrebbe contaminato l’élite. Oggi sono tutti giornalisti — tutti professionisti; professionisti (magari direttori di testate prestigiose) che, spesso e volentieri, non hanno mai scritto una sola riga in vita loro.
Sul mito del quotidiano a-parte
In un mondo ideale platonico, il giornale neutrale esiste; nel nostro mondo — ben poco platonico, tristemente povero d’ideali — non esiste, e non può esistere. Dietro ad ogni giornale ci sono degli uomini, ed ognuno di questi ha le proprie idee, le proprie convinzioni politiche, e tiene fede, in un modo o nell’altro, ad una corrente di pensiero. Ecco perché nel nostro ambiente ogni giornalista cerca di trovare lavoro in quel giornale che risponde meglio alle proprie ideologie. Ci sono comunque quelle testate, diciamo, “tradizionali”, non schierate ufficialmente, come La Stampa, il filogovernativo Corriere della Sera, La Repubblica… Quotidiani in cui c’è molta più libertà: e infatti dentro c’è davvero di tutto un po’ – pare la vecchia DC.
Anche nei giornali dichiaratamente schierati, non vengono date vere e proprie direttive redazionali: quando si fa parte di una redazione e si sa quale sia il pensiero diffuso riguardo, ad esempio, gli argomenti più delicati, importanti o controversi – in particolare, per quanto concerne la politica – viene naturale cercare di adeguarsi alla linea editoriale generale. Un’altra soluzione da molti adottata è quella di non sbilanciarsi: non è forse il più terribile, profondo annullamento di questa professione?

Il quotidiano non è (ancora) morto
In America ormai la carta non si usa quasi più; in America, come nella maggior parte dei Paesi occidentali. Diminuisce sempre più il numero di lettori che si affida al quotidiano cartaceo, ci si rivolge maggiormente ad internet. In Italia ci sono moltissime testate sul web, ma gran parte di esse ha davvero poco successo. Peraltro, non sono del tutto fruibili gratuitamente, alcune parti restano tuttora a pagamento. Io, chiaramente, sono molto legato alla carta stampata. Spero che il cartaceo sopravviva, e penso che in Italia per un bel po’ ancora resisterà. Ci sarà un lungo periodo di transizione in cui le due dimensioni si troveranno a coesistere, ed è di fatto la realtà che già un po’ viviamo oggi, tra alti e bassi. Ovviamente –ne sono ben consapevole– la carta è destinata a scomparire, ma di certo qui i tempi saranno più lunghi che altrove, come da tradizione.
Il buon giornalista
Tra le qualità che il “buon giornalista” deve di certo avere, prima fra tutte l’onestà. Per quanto riguarda le capacità, beh… Se si decide di intraprendere questo mestiere significa che dentro qualcosa c’è, e questo è ciò che conta. Poi le capacità, col tempo, divengono competenze: si perfeziona il modo di scrivere, si assume una cifra stilistica ben precisa, benché destinata ad evolvere e modificarsi; si affina la sensibilità. Purtroppo non conservo più i pezzi scritti da ragazzino, ma erano completamente diversi da quelli degli ultimi anni: all’inizio si sprecano gli aggettivi, le frasi risultano spesso ridondanti, i periodi infiniti; il mio modo di scrivere più recente è invece caratterizzato da frasi brevissime, aggettivi ai minimi termini, e ho imparato a non aver paura delle ripetizioni, giacché spesso, nel terrore di ripetere un termine già utilizzato poco prima, si ricorre a macchinosi giri di parole che rovinano e appesantiscono tutto — a cominciare proprio dal lettore. Ma queste sono quelle piccole cose che si apprendono col tempo, e così si impara il mestiere. Inoltre, non solo si deve scrivere, e farlo bene; è necessario anche leggere gli altri, ciò che scrivono i colleghi del proprio giornale, ciò che scrivono i colleghi degli altri giornali. E bisogna farlo tutti i giorni. È un lavoro infinito, incomincia da zero ogni mattina, con l’apertura delle agenzie di stampa. Spesso non si ferma. In ogni caso, i giornalisti più anziani –bada che siano di quelli buoni– in genere danno tanti consigli di cui far tesoro. Molte lezioni ci vengono poi dal passato, ed io stesso ho dei miti giornalistici. Uno tra questi è Ettore Mo, giornalista del Corriere della Sera, a parer mio il più grande inviato che abbiamo avuto in Italia negli ultimi cinquant’anni; ha iniziato come fattorino, e non è l’unico. Tra gli altri poi figurano ovviamente la Fallaci, Montanelli, Malaparte: solidissimi pilastri che non possiamo ignorare.
Nonostante le difficoltà, credo che quello che ho scelto –o che mi è capitato– sia il mestiere più bello del mondo. Permette di conoscere tantissime persone diverse, fare esperienze inconsuete che arricchiscono moltissimo, consente di viaggiare, muoversi e spostarsi (benché oggi pare che la figura dell’inviato stia pian piano scomparendo).
Se intendi veramente fare questo mestiere, non mollare. Non mollare anche se è difficile, e oggi te l’ho ripetuto in mille modi; ma le chiavi giuste si trovano: bisogna solo saper aspettare, esser tenaci, avere coraggio e tanta, tantissima forza.
Marta Clinco
@MartaClinco