Quindici anni dopo, all’avvicinarsi della scadenza elettorale europea, l’Euro è ancora al centro del dibattito, snodo centrale delle polemiche riguardanti la natura stessa dell’Unione.
Per l’appuntamento del 25 maggio si profilano schieramenti distanti anni luce dalle posizioni tradizionali: più che uno scontro fra i principali attori politici di Strasburgo ―Popolari e Socialisti (ai quale recentemente ha aderito il Partito Democratico), e gli altri gruppi presenti all’interno del Parlamento Europeo― le elezioni si configurano come un vero e proprio referendum sulla tenuta della moneta unica e sulle politiche di austerità condotte nell’Unione a partire dal 2010, anno in cui si è drammaticamente compreso che la vicenda continentale legata alla crisi economica mondiale non avrebbe necessariamente seguito la stessa parabola di altri continenti.
È ovviamente riduttivo assistere a una campagna elettorale schiacciata solo ed esclusivamente sulle tematiche economico-monetarie visto che la UE oramai “interferisce”, più o meno attivamente, con la stragrande maggioranza dei temi un tempo appannaggio dei soli dibattiti nazionali ―si pensi alle politiche agricole e agli standard di qualità sui prodotti agroalimentari, come anche l’armonizzazione delle legislazioni relative ai diritti civili, le decisioni in materia d’immigrazione o sistemi educativi, le procedure d’infrazione che sanzionano gli Stati membri qualora abbiano violato il diritto comunitario.
Tutte tematiche ovviamente interrelate con la dimensione economica ma che sotto profili specifici godono di un proprio statuto autonomo.
Tuttavia è inevitabile e necessario che i cittadini europei siano chiamati alle urne per esprimersi su quelle che, in tempo di crisi, diventano le priorità: fra queste, c’è senza ombra di dubbio la moneta unica e la possibilità di una sua deflagrazione ―tenendo presente che tutto il primo decennio degli anni Duemila si è contraddistinto per una totale indifferenza all’argomento, sulla stampa come fra gli intellettuali, le élite politiche e i cittadini comunitari, fatta tara di alcune rarissime eccezioni.
Oggi analizziamo una prospettiva fortemente critica nei confronti dell’Euro e delle sue conseguenze, espressa dal professor Alberto Bagnai, autore del saggio di divulgazione Il tramonto dell’Euro (vincitore del Premio Canova per la Letteratura Economico Finanziaria 2013) oltre che amministratore-autore del blog economico di successo Goofynomics, fondato nel novembre 2011.

Un viaggio attraverso un libro che racconta la vicenda della genesi dell’Euro e delle sue conseguenze sul piano macroeconomico, incluse quelle note sin dalla nascita del progetto; un viaggio attraverso teorie e spunti che anticipavano di decenni gli attriti attuali.
Accenneremo alle principali critiche che vengono mosse all’impianto teorico e alle conclusioni che si possono trarre dalla lettura del testo, concludendo con il giudizio politico dell’autore sull’intera vicenda.
Considerando la mole di informazioni e la vastità del dibattito in corso, rimandiamo per un’informazione completa alla lettura del saggio, del blog e ad ulteriori approfondimenti.
Il tramonto dell’Euro
Professore di Politica Economica all’Università G. D’annunzio di Pescara, Alberto Bagnai muove la propria riflessione ―che con insistenza maniacale non definisce la “propria” bensì quella della letteratura economica internazionale―a partire dalla Teoria delle aree valutarie ottimali e la dinamica del Ciclo di Frenkel.
Le aree valutarie ottimali
Le Aree Valutarie Ottimali (da adesso in poi Avo) sono uno dei fondamentali campi di ricerca macroeconomica, il cui obiettivo è comprendere e sistematizzare i criteri e le condizioni per le quali una determinata regione possa dotarsi di una valuta unica.
La prima formulazione organica della Teoria Avo si deve a Robert Mundell nel 1961 (Nobel per l’Economia nel 1999), e s’inseriva direttamente nel dibattito, a onor del vero mai conclusosi, sugli svantaggi e i vantaggi relativi a sistemi di cambi fissi o cambi variabili ―vigevano dal 1944 gli accordi di Bretton Woods, un sistema di cambi fissi che accettava il dollaro statunitense agganciato all’oro come valuta di riferimento per gli scambi internazionali.

Bagnai, sulla scorta degli accorgimenti di Mundell e di economisti intervenuti in precedenza e successivamente nel merito delle Avo (Meade, Friedman, Fleming ed altri), nota come la zona Euro manchi di alcune fondamentali caratteristiche che possano rendere sopportabile – in caso di shock – il dotarsi di una moneta comune.
I principali fra questi:
Mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro)
Il problema si pone particolarmente per il fattore lavoro: l’esempio di un operaio greco che assiste alla delocalizzazione della propria azienda in Lettonia ―poniamo per via di regimi fiscali più accomodanti―è esplicativo: in Europa (a differenza che negli Stati uniti) è molto complesso assistere a migrazioni interne di ampia portata, in quanto vincolate dalle disomogeneità dei sistemi previdenziali, dei mercati del lavoro e dei sistemi d’istruzione, oltre che da parziali impedimenti linguistici e culturali.
Convergenza dei tassi d’inflazione
La dinamica dei prezzi in Europa non ha manifestato alcuna tendenza alla convergenza, né prima né dopo l’adesione all’unione monetaria e ciò ha aggravato, o in alcuni casi provocato, squilibri regionali di competitività fra le imprese e settori industriali.
Se i prezzi di beni spagnoli subiscono un’impennata in un arco temporale definito, mentre i beni tedeschi rimangono inchiodati al palo nello stesso periodo, è chiaro che in assenza della leva valutaria, svalutazioni e rivalutazioni, si assisterà a una perdita di competitività delle aziende spagnole concorrenti di quelle tedesche.
In queste condizioni il gap si può colmare sul breve periodo solo ed esclusivamente attraverso “svalutazioni interne”, agendo cioè sulla flessibilità al ribasso dei salari, inducendo fenomeni di impoverimento e disoccupazione.
Integrazione fiscale
Significa che in presenza di squilibri strutturali fra alcune aree dell’Unione, le regioni in espansione si impegnano a trasferire ricchezza presso quelle in recessione.
Alberto Bagnai mette in evidenza come l’Italia stessa, che è un’unione politica e monetaria da centocinquanta anni, abbia retto al peso delle proprie contraddizioni territoriali attraverso lo strumento dei trasferimenti fiscali Nord-Sud e la mobilità del fattore lavoro in direzione Sud-Nord, che in concreto si è profilata come un immenso fenomeno di emigrazione dalle regioni del Mezzogiorno verso quelle del Settentrione; l’autore nota come ciò abbia alimentato nella penisola tendenze secessioniste, e di come si stiano riproponendo nel cuore dell’Europa – proprio per ragioni simili – gli odi fra Paesi che credevamo relegati nel dimenticatoio della storia.
Chi volesse ulteriori prove pensi al caso statunitense, dove oltre a una spiccata tendenza (nemmeno lontanamente comparabile con quella europea) alla mobilità del lavoro dentro i confini del Paese, esiste un sistema di trasferimenti interno e un bilancio federale che funziona da stabilizzatore delle divergenze nazionali, basato su ovvie constatazioni: ad esempio che regioni desertiche non possano strutturalmente competere con quelle ricche di bacini acquiferi.
Un ultimo caso considerabile ai fini della riflessione, può essere rappresentato dall’annessione della Germania Est alla Germania Ovest dopo il crollo del Muro di Berlino, con un cambio monetario 1:1.
Si assistette a immense migrazioni dalla DDR verso la ex Repubblica Federale, per una percentuale della popolazione pari a quasi il 25%, come se quindici milioni di italiani si trasferissero improvvisamente dal Meridione al Triveneto, con conseguenze salariali che è facile immaginare.
Molti altri sono i criteri indicati che renderebbero, secondo questa interpretazione, una regione un’area valutaria ottimale, fra i quali inseriamo, pur senza approfondire ulteriormente, la flessibilità dei salari ―che permette un rapido recupero di gap competitivi fra Paesi― e una maggiore diversificazione produttiva in ogni singola regione, in modo tale da impedire che uno shock di settore (poniamo per assurdo il crollo della domanda mondiale di prodotti agricoli) distrugga le sole regioni caratterizzate da produzioni agricole, ma si spalmi al contrario, diluendosi negli effetti, su tutti i Paesi membri dell’area in questione.
Su quest’ultimo tema, Bagnai riporta uno studio di Paul Krugman del 1993, nel quale l’economista americano sosteneva che un’area con cambi fissi ‒di fatto‒ incentiva le industrie a sfruttare i vantaggi comparati di singoli territori, non favorendo affatto la diversificazione produttiva, ma concentrando le produzioni per zone geografiche, elemento di estrema precarietà nel momento in cui si presentano crisi di settore.
Un dato va precisato: la Teoria Avo – che pure è soggetta a forti critiche – non è una lista della spesa nella quale scegliere che prodotti acquistare o una strada maestra che volendo può essere percorsa a ritroso. Essa semplicemente descrive quali strategie economiche siano necessarie conseguire prima del dotarsi di una valuta unica, senza esprimersi nel merito delle medesime che, per inciso, sono spesso fonte di diseguaglianze ―si pensi alla flessibilità dei salari e del mercato del lavoro, che tradotto in italiano significa precarietà, o alla mobilità del fattore lavoro che nel concreto significa desertificazione delle aree soggette a emigrazioni.
Ciclo di Frenkel
Teoria elaborata da Roberto Frenkel ―economista dell’Università di Buenos Aires― e pubblicata sul Cambridge Journal of Economics, che si ripromette di evidenziare su basi empiriche e teoriche le cause delle crisi finanziarie negli ultimi trent’anni.

Frenkel parte dalla teoria dei cicli endogeni di Hyman Minsky, adattandola alle economie in via di sviluppo.
Il movente dell’economista argentino era spiegare in particolare la crisi finanziaria del proprio Paese, che portò nel 2001 alla rottura degli accordi di cambio fisso con il dollaro e all’impossibilità di ripagare buona parte del debito contratto dalla nazione.
Il Ciclo di Frenkel o “romanzo di centro e periferia” – come lo definisce Bagnai – si fonda nelle scelte politiche degli anni Ottanta-Novanta, epoca delle liberalizzazioni dei movimenti di capitale e della fine della “repressione finanziaria” da parte degli stati nazionali.
Descrive per tappe il processo che porta ad un’unione monetaria o a un accordo di cambio fisso fra due o più economie radicalmente differenti, sottolineando le conseguenze sul piano macroeconomico.
Un’organizzazione internazionale (tipo il Fmi) o uno stato dall’economia avanzata (come nel caso Usa-Argentina) propone a Paesi periferici ―spesso martoriati da fenomeni di iperinflazione e corruzione― un accordo di cambio nominale fisso tra valute e un pacchetto di riforme che prevedano in primo luogo la liberalizzazione dei movimenti di capitali fra le due aree.
Abolendo il rischio di cambio, gli agenti economici del Paese-centro dirigono in massa i propri capitali verso il Paese-periferia, attratti dalle enormi possibilità d’investimento ―servizi, infrastrutture, comparti industriali generalmente carenti in aree in via di sviluppo― e dagli elevati tassi d’interesse.
Sia che i capitali esteri si dirigano verso il comparto pubblico (titoli di debito, obbligazioni di società pubbliche) sia che lo facciano verso il comparto privato (azioni societarie, prestiti bancari), in un primo momento si assiste a una progressiva impennata degli investimenti e dei consumi, quindi del Pil e dell’occupazione, con effetti benefici sul saldo dei conti pubblici del Paese periferico, che può usufruire di un enorme gettito fiscale aggiuntivo.
Mentre migliorano, o rimangono stazionarie, le condizioni del deficit e del debito pubblico si assiste di riflesso a un indebitamento crescente del settore privato (famiglie e imprese) drogato dall’afflusso dei capitali esteri.
Tale dinamica apparentemente virtuosa – miglioramento delle finanze pubbliche ma progressivo logoramento ed esposizione delle finanze private – si osserva dentro l’Eurozona a partire dal 1999, anno di fissazione del cambio, con particolare incidenza per i Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna).
A partire dal 2007-2008, quando la crisi dei mutui subprime si abbatte sui mercati, assieme ad un brusco rallentamento dei finanziamenti esteri ― il sudden stop che rovescia la dinamica degli afflussi di capitale in deflussi con susseguente blocco creditizio – si assiste a un numero crescente di fallimenti privati.
Gli Stati si trovano costretti ad agire su diversi fronti: sostenere i redditi delle famiglie attraverso assegni di disoccupazione o forme di ammortizzazione sociale come la cassa integrazione, salvare o nazionalizzare gli istituti di credito in via di fallimento.
Il tutto introitando gettito fiscale sempre minore, visto che le aziende falliscono e i consumi crollano.
I conti pubblici si caricano sulle spalle l’onere dei fallimenti privati e in effetti ciò si nota osservando la serie storica del rapporto debito pubblico/Pil per l’Italia: nel 2007 il rapporto tocca il minimo dal 1991 attestandosi al 103,28% per ricominciare a salire negli anni successivi, a crisi inoltrata, fino al record del 2013 al 133,33%.
Stesso discorso vale per Portogallo e Grecia, che come l’Italia partivano da livelli di indebitamento pubblico già elevati, e per Spagna e Irlanda che al contrario presentavano rapporti di indebitamento pubblico su Pil fra i più bassi, quasi risibili, di tutta Europa.
La situazione dei debiti pubblici si aggrava nonostante i governi decidano a un certo punto di intraprendere le cosiddette politiche di austerità, ovvero rispettare i parametri, rigidi, fissati con gli accordi internazionali, Maastricht e le successive evoluzioni dei trattati europei ―il Patto di Stabilità e Crescita Europeo e il Fiscal Compact.
Sembra un controsenso ma non lo è: pur tenendo sotto controllo la spesa pubblica, incrementando la pressione fiscale ed evitando di sforare l’oramai leggendario rapporto deficit/Pil al 3%, l’indebitamento continua a salire.
Il problema è, come si suol dire, al denominatore: il Pil non cresce e a questo punto per rispettare i parametri bisogna intensificare le manovre restrittive, altri tagli di spesa e strette fiscali, che aggravano ulteriormente il percorso di crescita di un Paese.
La crisi si trasforma in recessione e, nella peggiore delle ipotesi, quest’ultima si trasforma a sua volta in depressione.
Il Ciclo di Frenkel mette in discussione alcune delle più inflazionate argomentazioni a favore della moneta unica: spesso nei dibattiti si sente parlare del “dividendo dell’euro”, che consisterebbe per l’appunto nei bassi tassi d’interesse di cui i Paesi periferici dell’Eurozona hanno goduto, nei primi anni Duemila, per finanziare il proprio debito, quello pubblico che nel frattempo calava e quello privato che nel frattempo aumentava vertiginosamente.
Il saggio suggerisce che proprio l’ammontare crescente del debito privato verso l’estero ―favorito dall’adesione all’Euro che rendeva semplice prestare denaro a stati, imprese e famiglie che non necessariamente possedevano i requisti di solvenza (ricorderete le rivelazioni del 2009 relative ai conti pubblici truccati in Grecia)― ha contribuito a sprofondare i Paesi in una voragine dalla quale pare impossibile riemergere.
Conclusioni
Il saggio di Bagnai affronta in maniera variegata e approfondita molte tematiche che per ragioni di spazio abbiamo semplicemente omesso da questo articolo, privilegiando un approccio teorico, spesso astratto, legato a due teorie – Avo e Ciclo di Frenkel – che nel panorama della discussione economica sono ricorrenti.
L’autore dedica paragrafi e capitoli al racconto del pluridecennale dibattito su cambi fissi o cambi variabili e alla riforma tedesca del mercato del lavoro nei primi Duemila ―che a dire di molti osservatori sarebbe la causa primaria, attraverso la deflazione salariale, delle divergenze di competitività fra i Paesi dell’Eurozona.
Riporta una serie di casi storici relativi a rotture di agganci nominali fra valute, non da ultime la crisi valutaria che costrinse l’Italia ad abbandonate lo Sme – il progenitore della moneta unica – nel 1992 o i crolli di Bretton Woods nel 1971 e la sospensione del Gold Standard a partire dal 1931― i due sistemi monetari internazionali di cambi fissi che hanno segnato un secolo e mezzo di storia economica globale.
Altri capitoli si occupano esclusivamente di rispondere alle principali obiezioni che vengono mosse dai sostenitori dell’Euro: c’è chi obietta a Bagnai di leggere la crisi odierna solo ed esclusivamente attraverso la lente d’ingrandimento della bilancia dei pagamenti e delle partite correnti ―le differenze fra importazioni ed esportazioni di merci e capitali, con susseguenti rapporti di indebitamento fra Paesi― senza prestare dovuta attenzione alle peculiarità delle singole nazioni: nel nostro caso, ad esempio, si tratta di una dinamica di spesa pubblica non eccessiva ma allocata secondo criteri clientelari e demagogici, elevati tassi di corruzione, evasione fiscale, un mercato del lavoro rigido, una pubblica amministrazione farraginosa che impedisce lo svilupparsi di un’impresa fiorente.
C’è poi chi lo accusa di sottovalutare le conseguenze di una fuoriuscita dell’Italia dall’Euro ― secondo molti disastrosa in termini di inflazione e potere d’acquisto, costo insostenibile delle materie prime, fughe di capitali incontrollate, ridenominazione dei debiti e ripercussioni sul piano economico-politico da parte di altre potenze.
A queste e altre critiche, nel saggio vengono comunque fornite delle risposte, la cui validità non può che essere attestata dal singolo lettore.
Gli ultimi due capitoli del testo propongono alcuni scenari di uscita dalla moneta unica sotto il profilo economico e giuridico, per evitare che una scelta comunque complicata (l’autore questo non lo nega pur caldeggiandola apertamente) venga lasciata in balia del caso.
Svincolandosi da qualunque forzatura complottista, il professor Bagnai non rinuncia a muovere accuse molto precise, nel libro e soprattutto nel blog ―leggendo quest’ultimo spesso si ha la sensazione di ascoltare la voce di un santone che si rivolge ai propri adepti, forma comunicativa autoritaria che purtroppo (a parere di chi scrive) è intrinsecamente legata alla dimensione del blog personale.
Accuse politiche vengono mosse a buona parte della sinistra italiana ed europea, Partito Democratico su tutti, per aver avvallato e contribuito a costruire, senza un minimo di spirito critico, un sistema economico continentale intrinsecamente “di destra”, in cui il costo di qualunque aggiustamento degli squilibri fra Paesi, venendo meno l’oscillazione del cambio, va a gravare sui salari e gli stipendi delle classi lavoratrici ―perché se non si può svalutare “esternamente” bisogna farlo “internamente”.
Bagnai accusa anche le tradizionali forze di sinistra di aver abbandonato il campo del dibattito critico sull’Euro, favorendo l’avanzata di forze politiche populiste, spesso xenofobe (si pensi a Marine Le Pen in Francia e ai recenti risultati delle elezioni amministrative), che finiranno per utilizzare questa tematica come “cavallo di Troia” per un consenso elettorale più ampio e più pericoloso.
L’autore ricorda la dichiarazione di voto del deputato comunista Giorgio Napolitano in occasione della seduta parlamentare del 13 dicembre 1978, ordine del giorno l’entrata dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo: l’attuale Presidente della Repubblica illustrava ai colleghi deputati la contrarietà del PCI al sistema della moneta unica, con argomentazioni simili e coincidenti a quelle di chi oggi condivide la tesi dell’insostenibilità dell’Euro.
Resta da capire cosa è cambiato nel frattempo.
In conclusione la posizione del professore pescarese è riassumibile in due due concetti: essere favorevoli all’Euro ma contrari alle politiche di austerità è un controsenso economico; l’austerità, sostiene Bagnai, è l’altra faccia della medaglia Euro senza la quale il progetto di unione monetaria sarebbe già venuto meno.
Da ultimo l’autore ci tiene a precisare che Euro, Unione Europea ed Europa sono tre concetti differenti: essere contrari alla moneta unica non significa essere contrari al progetto Erasmus, alla libera circolazione degli individui, agli accordi bilaterali fra Paesi, al famoso “sogno di una fratellanza europea”, o alla geografia ―in parole povere non significa essere dei nazionalisti integralisti.
Questa distinzione spesso sfugge nei dibattiti televisivi e giornalistici, finendo con l’accomunare, dentro un gigantesco calderone, l’economista che su basi razionali contesta una scelta politica e il razzista di turno banalmente contrario all’immigrazione.
Se c’è da trovare un grande merito nel libro, questo è l’aver ravvivato nell’opinione pubblica, attraverso la sua opera di divulgazione, un dibattito che quando non del tutto assente era sopito se non palesemente menzognero e demagogico.
Tematiche che tutti i giorni si scontrano con la reatà quotidiana della politica e dell’economia non possono essere relegate alle torri d’avorio del dibattito accademico fra addetti ai lavori.
@Frafloris
Photo credit: Fortune Live Media, UNU-WINDER