Del: 6 Aprile 2014 Di: Giulia Pacchiarini Commenti: 0

«Continuerete a scattare foto pensando che il disastro non vi era sembrato così grande. Fate tutte le foto che volete, ma testimoniate la verità.
Date parole a quel poco che hanno potuto vedere i vostri occhi.»

Di L’Aquila ricordo innanzitutto il freddo. Quello che ti entra nelle ossa e lì ristagna, non molla la presa, penetra sotto gli abiti, spezza i respiri, disegna crepe sulle nocche e graffia le labbra. Non avevo mai avuto né ebbi più quel freddo, eppure non lavorai mai tanto né con la stessa passione come in quei giorni trascorsi nel capoluogo abruzzese, sospeso nel tempo e nello spazio.
Alle 3.32 del 6 Aprile 2009 L’Aquila e il territorio circostante vengono colpiti da una scossa sismica di magnitudo 5.9 della scala Richter. L’urto provoca il crollo di numerose strutture, 1500 feriti, 80.000 sfollati, 309 morti.

1-final


In poche ore sul territorio aquilano, tra le macerie di Paganica, Fossa, Onna, arrivano la Croce Rossa, i Vigili del Fuoco, la Protezione Civile, i giornalisti.
Arrivano altre 256 scosse in sole 48 ore.
Arrivano gli enti istituzionali, i politici, gli imprenditori, i curiosi.
Arrivano videocamere, tende blu, preti, imam, volontari, cibo, riscaldamento, cuscini, libri, abiti, disegni, scienziati, geologi, cantanti, presidenti, finanziamenti.

In una manciata di secondi L’Aquila cessa di essere città, diviene luogo di passaggio, terra di nessuno e di tutti. Gli abitanti sono per la maggior parte sfollati, combattuti tra il desiderio di tornare tra le proprie mura, a prescindere dalla possibilità che queste vi siano ancora, almeno per recuperare qualche abito, oggetti, e la paura di avvicinarsi a quei luoghi, paura di vederli, di prenderne coscienza.
Tanti altri continuano ad arrivare, ci si dà il cambio, si trasmettono notizie, mansioni, colpe.

Poi, il tempo passa, L’Aquila rimane immobile, come fossilizzata, lentamente, il silenzio inizia a scivolare sul paesaggio abruzzese, si smistano gli ultimi sfollati tra alberghi, strutture provvisorie e parenti, scompaiono le tende blu.
Cala il sipario sul 6 aprile e sui suoi interrogativi. Buio. Silenzio.
Ma nulla è a posto, nulla è finito.

Io giungo a L’Aquila tardi, più di un anno dopo il sisma, scelgo il periodo di Capodanno e contatto la Caritas di Umbria e Piemonte, l’unica associazione presente sul territorio con un campo di volontariato che accolga anche minorenni.
Parto con alcuni amici. Nessuno ci dice che cosa dovremo fare, perché nulla è stabile, né il suolo, né tanto meno le necessità. Ogni giorno ci vengono affidati compiti nuovi, alcuni da ripetere quasi quotidianamente, come il volantinaggio riguardante la presenza di luoghi di aggregazione riscaldati (Tende Amiche) o il giro di visite ad alcune famiglie. Altri incarichi sono eccezionali o si concludono in pochi giorni. A volte richiedono forza fisica, come il trasporto di opere di valore da luoghi a rischio ad edifici sicuri, la catalogazione di libri antichi, rinchiusi tra le macerie della biblioteca di un monastero, la pulizia di una scuola eretta dopo il sisma. Usciamo dai container in cui sono ammassati sacchi a pelo e zaini all’alba e torniamo per cena, solo a volte per pranzo, dipende dalla giornata, dalle sue esigenze.

«Non si usa più il termine “abitare”, ma “dimorare”, risiedere, trovarsi, stare, tutti rigorosamente preceduti da “mo'”(ora) sperando che anche questo avverbio di tempo provvisorio non diventi definitivo.»

Non ci fermiamo mai, osserviamo tutto. Ci passano sotto gli occhi i territori devastati dalle scosse e intonsi dal 6 aprile, i soffitti spalancati su sprazzi di cielo, le deviazioni, le cupole centenarie scivolate giù per le pareti delle loro cattedrali. A volte lavoriamo in paesi deserti, spesso attraversiamo le abitazioni serie e allineate del progetto M.A.P.– Moduli Abitativi Provvisori – inaugurate nel settembre 2009. Sono villette l’una identica all’altra, circondate da un giardino all’inglese, sembrano quelle case vacanze in cui si consumano pochi momenti tra mare e spiaggia, con la differenza che chi abita queste villette vi trascorre intere giornate. Alcuni di loro ci fanno entrare, ci offrono caffè e panettone e ci raccontano di quella notte in cui sono fuggiti da casa, la casa vera, sono tutti grati del progetto M.A.P. nessuno ne criticherebbe il minimo dettaglio, ma è chiaro che quella non è Casa, è l’attesa sotto forma di mura, tetto ed elettrodomestici. Parlano della vita di prima e di quella di dopo, lo spartiacque è il terremoto, non c’è bisogno di ricordarlo. Raccontano della vicina che ora non è più vicina perché è stata trasferita dall’altra parte dell’aggregato abitativo, della possibilità di rientrare a casa, del lavoro che manca perché il negozio è crollato, la ditta ha chiuso, la scuola non ha riaperto. Anche i monaci, che ora risiedono in un prefabbricato nel cortile di fronte al monastero, desiderano parlarci del sisma.
Ognuno vuole e chiede di essere ascoltato, desidera spiegare, e noi diventiamo casse di risonanza per ognuna delle loro storie. Strumenti volontari.
Solo durante l’ultimo giorno ci permettiamo di attraversare la città, vuota, nuda, smembrata nella sua più pudica intimità. I palazzi sono tenuti in piedi da travi di legno e da quelli che sembrano enormi elastici, i letti e gli armadi sporgono sul nulla nelle stanze dischiuse dal sisma, i poster appesi alle pareti della casa dello studente sventolano all’aria. Forse sono foto, forse schemi di studio. Non lo sappiamo e non lo vogliamo sapere, vi è un macerato senso di colpa nell’osservare la realtà di chi viveva in quelle stanze, ma è altrettanto forte il senso del dovere che ci impone la tacita promessa stretta con coloro che abbiamo incontrato: raccontare, raccontare tutto, anche l’indignazione, la vergogna.
Così incameriamo ogni dettaglio che la città può dignitosamente esibire, i cartelli appesi alle grate, i 309 fiocchi dei colori della città – ideati dopo il terremoto del 1703 – i calcinacci, le finestre aperte da cui si intravedono altre finestre aperte, quelle del palazzo accanto.

Lavori in “corso”, attività in forse

Oggi dalla notte del sisma sono trascorsi cinque anni, 189 inchieste riguardanti il sisma e altre legate alla ricostruzione, 18 processi, qualche sentenza e molti condannati. Tra questi vorrei ricordare i membri della commissione Grandi Rischi: Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Bernardo De Bernardinis, Giulio Selvaggi, Claudio Eva e Gianmichele Calvi, condannati in primo grado per omicidio colposo plurimo; Bernardino Pace, Pietro Centofanti e Tancredi Rossicone condannati a quattro anni di reclusione per l’omicidio plurimo delle vittime della casa dello studente.
Cinque anni dal prima e dal dopo, non sono pochi eppure il tempo fatica a ripartire all’Aquila, dove tuttora le scuole sono prefabbricati e molti degli sfollati rimangono tali, sono circa 18.700, collocati tra M.A.P., C.A.S.E. – Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili – e appartamenti finanziati dal comune, un numero minimo rispetto alla quota iniziale, ma ancora tremendamente alto. Il centro storico attende a tutt’oggi una ricostruzione degna di questo nome, antisismica e priva di prefabbricati. Durante il governo Berlusconi erano stati assicurati 6 mesi per la ricostruzione, successivamente è stato ipotizzato qualche mese in più, poi qualche anno. Secondo una recente dichiarazione il sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, che occupa questa carica dal 2007 (riconfermato nel 2012), il ritardo è stato causato dall’imposizione di un commissario statale e dalla conseguente esclusione degli enti locali. Assicura che il progetto di ricostruzione vero e proprio è partito il primo gennaio 2013 e terminerà in massimo 24 mesi. Le inchieste aperte sulla ricostruzione però lasciano intuire che non sia stata solo un’incomprensione con gli enti locali la causa di questi cinque anni di attesa. La procura dell’Aquila, infatti, sta indagando su più fronti riguardanti le intrusioni di criminalità organizzata di stampo mafioso nel lavori di ricostruzione—per questa ragione 14 ditte sono state escluse dai progetti. Ma pare non ci sia limite al peggio, l’8 gennaio 2014 infatti sono stati messi agli arresti domiciliari quattro ex assessori e funzionari pubblici locali, accusati di millantato credito, corruzione, falsità materiale e ideologica, appropriazione indebita negli appalti legati alla ricostruzione della città dopo il terremoto.
Se speculare sul dolore altrui fa ribrezzo, farlo sul proprio, sulla propria terra, sulle proprie case, è cosa inconcepibile ai più.

4-final

Nonostante piccoli miglioramenti oggi L’Aquila rimane ancora immobile e silenziosa, come in quei primi mesi dopo il terremoto. Svuotata della sua gente, grida le loro ragioni tramite parole stampate: scritte e disperse per le vie, appese alle grate di metallo, sulle vetrine dei negozi. Esprimono pensieri, poesie, ricordi, insulti, richieste, quelle che ho riportato qui.
La ricostruzione finirà quando quei cartelli spariranno.
Solo a ricostruzione finita verranno ripiegati e messi via, strappati da chi li aveva affissi.
Solo quando sarà liberata da tutte quelle invocazioni L’Aquila potrà tornare a riempirsi di voci alte – non più scritte – e a dirsi città, capoluogo, Casa.

Giulia Pacchiarini
@GiuliaAlice1
Giulia Pacchiarini
Ragazza. Frutto di scelte scolastiche poco azzeccate e tempo libero ben impiegato ascoltando persone a bordo di mezzi di trasporto alternativi.

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