Del: 16 Aprile 2014 Di: Maria C. Mancuso Commenti: 0

“Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi. Stavano, con le loro valige di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, (…); vi erano arrivati all’imbrunire, ed erano partiti all’alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare(…) Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare (…): e sgomentava il pensiero di dover attraversarlo (…) da quella deserta spiaggia (…), di notte, ad un’altra deserta spiaggia (…) pure di notte.
Perché i patti erano questi – Io di notte vi imbarco – aveva detto l’uomo: una specie di commesso viaggiatore per la parlantina, ma serio e onesto nel volto – e di notte vi sbarco.”

Sembrerebbe l’incipit del racconto di un viaggio della speranza per arrivare sulle nostre coste, di quelli che si sentono al telegiornale e che spesso si trasformano in tragedia. Ma non è così, sono le parole di Sciascia in Il lungo viaggio, racconto tratto dalla raccolta Il mare colore del vino del 1973, dove racconta la partenza di un gruppo di siciliani per l’America.

L’Italia è terra di migranti, terra che ha dato i natali ad un popolo che si è sparso su tutto il pianeta.
Anche io sono una migrante, proveniente da una famiglia di migranti, amica di migranti. Probabilmente siete migranti anche voi che leggete. Negli ultimi decenni il nostro paese non è più soltanto un luogo da cui partire, ma è anche un punto di arrivo per altri popoli provenienti dalla stessa Europa, ma anche dall’Africa, dal Sud America, dall’Asia.

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Bosede e Moussa sono i nomi fittizi di due ragazzi africani senza permesso di soggiorno che ho conosciuto durante una vacanza in Calabria, dove abita la mia famiglia.


Provenienti da due nazioni diverse del continente africano, sono arrivati in un paesino del sud Italia in momenti e modi differenti, ma il loro sogno è lo stesso. Lo stesso che spinge chiunque abbia lasciato la propria casa per ricominciare una nuova vita altrove: la certezza che esista un’alternativa migliore.
Bosede, 29 anni, viene dal Mali, un Paese senza sbocchi sul mare. La lingua ufficiale è il francese, ma come spesso accade per le ex colonie vi si parlano varie lingue minoritarie, come il tuareg. Come l’80% della popolazione, Bosede è musulmano.
Ciò che mi colpisce subito di lui è la paura che ha negli occhi mentre parla. Bosede si nasconde in mezzo alla campagna, dove lavora come bracciante, e per questa sorta di forzoso distacco dalla società, non parla e non comprende l’italiano. Ha pochi amici, per lo più africani. Si esprime con un francese stentato.
Quando gli chiedo di raccontarmi il suo viaggio, i suoi occhi si fanno profondi, la voce trema: hanno dovuto attraversare la Libia, pagando una somma alla polizia. Sono partiti su un gommone in ventisette, c’erano anche delle donne. Non potevano dormire, non c’era cibo, non c’era acqua. Finalmente l’arrivo al centro di accoglienza di Crotone, dove sono rimasti sei mesi. Gli chiedo della sua famiglia, ma non vuole più parlare e lascio stare: ha troppa paura di essere scoperto.
Il giorno seguente incontro Moussa, amico di Bosede, che invece è senegalese. Il suo paese si trova nell’Africa occidentale e confina con il Mali, in unione al quale si era reso indipendente dalla Francia nel 1960. La sua economia è discretamente sviluppata, la lingua ufficiale resta il francese e la religione maggiormente praticata l’Islam.
Moussa è qui da cinque anni, parla benissimo italiano ed è ben integrato: “Se uno vuole entrare in una casa, deve prendere le chiavi per entrare. Con le persone funziona così: se vuoi parlare, devi salutare. Io saluto sempre tutti e conosco tutti qui. Questa è la chiave”.
A differenza di Bosede, Moussa è arrivato in Italia in aereo, restando per un certo periodo di tempo anche in varie altre città: Parigi, Malaga, Napoli.
Con lui c’è subito più intesa, si crea una certa consonanza. Con un grande sorriso mi racconta del suo lavoro come pastore, secondo lui in Italia ci sono troppe persone che disdegnano alcune professioni: “Ho conosciuto uno che ha un figlio di 18 anni, lui non vuole fare il pastore perché non gli piace e suo padre paga un operaio che gli guardi le pecore. Il figlio che va a lavorare in un altro posto però guadagna meno di quanto il padre dà all’operaio. È una cosa stupida! Sai cosa dico io? Fai quello che c’è, fin quando non trovi quello che ti piace.”

Gli chiedo di raccontarmi cosa faceva in Senegal prima di partire: ha studiato filosofia in una scuola francese “perché mi piace pensare, mi piacciono le domande, ma l’intelligenza non la ottieni a scuola, se oggi vedi le persone che vanno a scuola o all’università, ce n’è di stupidi!”. Più tardi ha deciso di approfondire la conoscenza della sua religione in una scuola araba: “Non esiste religione che ti dice di fare danni. Quelli che fanno cose brutte oggi, lo fanno per i soldi. Il cristianesimo e la ‘ndrangheta che cosa c’entrano? Niente! Al Qaeda non c’entra niente con l’Islam! Al Qaeda è una mafia che vende le armi. Io non posso credere che loro difendano la religione musulmana. Se io voglio farlo, non uccido le persone, non vendo le armi o la droga o altro. Se io studio il Corano o la Bibbia, non è per ammazzare le persone, è per fare la cosa giusta.”
Parliamo della sua famiglia e delle donne, sua madre e le sue sorelle non portano il velo. Mi racconta di aver convissuto con una donna italiana per un po’ di tempo, non gli importava fosse cristiana:

“Musulmano e cristiano è la stessa cosa”.

Gli domando allora scherzosamente se ci sia differenza tra le fidanzate senegalesi e quelle italiane e risponde: “Le italiane sono più molto più gelose e vogliono troppo amore, vogliono starti sempre vicino. Ti mandano mille messaggi… Io avevo Facebook e ora l’ho tolto! Ho cambiato persino numero di telefono per la mia ex-ragazza italiana. Mi cercava sempre!”

Del permesso di soggiorno invece mi dice: “Oggi, uno straniero se non sposa un italiano non può averlo. Forse più in là faranno una sanatoria. Ma io non posso, sono stato espulso. Ero in paese, parlavo con i miei amici, sono passati i carabinieri e mi hanno chiesto se avevo i documenti. Ho risposto «No», loro mi dicono «Sali in macchina, andiamo». Entro cinque giorni dovevo andare via dall’Italia, ma come potevo fare? Per andare in Senegal servono come minimo 600 euro!”

La differenza tra i due è tanta, il primo si nasconde e ha tanta paura, il secondo tenta di cavarsela cercando di vivere con dignità nonostante le enormi difficoltà.
L’Italia è terra di migranti, ma non è più una terra di miseria, chi parte non lo fa più su un barcone come i protagonisti del racconto di Sciascia, che dopo undici giorni sbarcano sulla spiaggia che credevano fosse quella del Nugioirsi, ma che in realtà si rivela essere quella di Santa Croce Camerina, in provincia di Ragusa. L’uomo che li ha lasciati lì si era intascato duecentocinquantamila lire a testa e noi, mentre leggiamo, proviamo fastidio perché ci immedesimiamo in quei disgraziati e non ci importa affatto se avevano intenzione di entrare negli Stati Uniti clandestinamente, non pensiamo a biasimare loro. Dunque, quali accuse potremmo mai rivolgere a Bosede e Moussa?

Maria Catena Mancuso
@MariaC_Mancuso
Photo credit CC K.B. Ansari
Maria C. Mancuso
Scrive di agricoltura, ambiente e cibo. Mal sopporta chi usa gli anglicismi per darsi un tono.

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