In occasione della recente visita di Obama nel vecchio continente, la stampa europea e statunitense si è concentrata sull’incontro tra il leader di Washington e Papa Francesco, oltre che sulle critiche espresse dal Presidente americano alle cancellerie europee, nel merito dei tagli ai budget per la difesa e le basse percentuali di investimenti militari su pil rispetto agli standard americani.
Obama ha espressamente dichiarato che “la libertà non è gratis”.
Non ci si è sufficientemente concentrati su quella che è la vera ragione alla base della visita primaverile di Barack Obama in Europa — il negoziato commerciale in fase embrionale che prende il nome di TTIP, Transatlantic Trade and Investment Partnership.
Quest’accordo di libero scambio transatlantico che si propone di rimuovere le barriere commerciali (tariffarie e non) residue fra Stati Uniti ed Unione Europea, facilitando e promuovendo lo scambio di beni e servizi tra le due aree, è stato lanciato nel luglio del 2013 e si prevede una sua stesura definitiva per la fine del 2014.
Il negoziato viene portato avanti dalla Commissione Europea e dall’amministrazione statunitense con modalità al limite della segretezza assoluta, tant’è che sul sito della CE si trovano pochissime informazioni riguardanti il TTIP; l’elemento segretezza gioca a sfavore del pubblico dibattito su un tema che potrebbe cambiare radicalmente le vite di molti europei e nordamericani, e che dovrebbe essere al centro di ogni agenda politica e ogni discussione, a maggior ragione mentre l’Unione si muove a grandi passi verso le elezioni del 25 maggio.
In Italia il dibattito critico dovrebbe essere ancora più spiccato, visto che con ogni probabilità l’accordo si concretizzerà proprio durante il semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea.
Nonostante ciò, in questi mesi si sono levate solo le voci del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta, che si sono espressi positivamente rispetto alla creazione di un’area atlantica di libero scambio.
Cosa modificherà il TTIP?
Il TTIP si propone in primo luogo di abbattere le barriere doganali, sotto forma di dazi che limitano la circolazione di alcune tipologie merceologiche fra le due aree, per creare un sistema di concorrenza perfetta: non sarà uno sconvolgimento radicale visto che molti dei dazi sono già stati abbattuti negli ultimi vent’anni, attraverso una serie di accordi bilaterali presi in sede internazionale presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
I problemi cominceranno a sorgere quando si tratterà di uniformare tutte le legislazioni e i regolamenti nazionali che vincolano produttori di beni e servizi a determinati standard di qualità e sicurezza — quell’apparato di norme differenti su base regionale o tutt’al più comunitaria che in economia si definiscono barriere non tariffarie.
Ad esempio per più di un ventennio la legislazione europea ha vietato la circolazione di carni bovine statunitensi per ragione di salute pubblica, visto che il bestiame d’oltre Atlantico viene abitualmente trattato con ormoni della crescita. A febbraio 2014 L’Informatore Agrario dà la notizia di un accordo preliminare fra le due potenze per la circolazione di “alcune” carni bovine americane, definite da Bruxelles “di qualità”.
Il futuro Parlamento Europeo, che pare essere l’istituzione delegata a deliberare sul trattato in sede comunitaria, avrà l’ingrato compito di supervisionare alla stesura del medesimo, garantendo gli interessi nazionali degli Stati membri ed evitando di subire le pressioni lobbistiche dei grandi gruppi (i più avvantaggiati da una prospettiva fortemente libero-scambista) che inevitabilmente reclamano il loro peso in questo contesto.
Stanno già emergendo alcune contraddizioni rilevanti: Paesi come la Francia o l’Italia hanno forti interessi economici a garantire la riconoscibilità dei prodotti del comparto agroalimentare, attraverso i controlli di qualità e le denominazioni di origine di cui si sono dotate negli anni, per evitare di trovarsi sugli scaffali dei supermercati uno Champagne californiano o un Parmigiano del Vermont, che competano sul solo prezzo al dettaglio e sull’impossibilità del consumatore di distinguere fattura e provenienza di un prodotto.
Una situazione siffatta comporterebbe la morte delle diffusissime medio-piccole aziende italiane e francesi vocate all’agricoltura o all’allevamento, le quali non sarebbero in grado di concorrere con le mastodontiche cugine produttrici nordamericane — le stesse che peraltro godono da decenni, in barba alla libera concorrenza da sempre declamata e mai applicata, dei favori dello Stato per mano dello U.S. Department of Agriculture.
Peraltro esistono precedenti storici inquietanti: negli stessi Usa dopo la firma degli accordi NAFTA, che sancirono la nascita di un’enorme area di libero scambio nordamericana assieme a Canada e Messico, il comparto agricolo statunitense vide crollare drasticamente il numero dei propri occupati. L’inevitabile aumento delle esportazioni dovuto all’apertura dei mercati non riesce sempre a compensare la perdita di competitività dovuta alla concorrenza estera, ed è per questo che le attuali valutazioni ottimistiche della Commissione Europea sull’impatto del TTIP nel continente in termini di occupazione e incremento degli scambi commerciali —valutazioni frutto di un unico studio “indipendente”— sembrano non tenere in dovuto conto l’impatto potenzialmente esplosivo che il TTIP avrebbe sui settori più vulnerabili alla concorrenza estera.
Dall’altro lato della barricata diplomatica, Barack Obama ha fatto sapere di non voler modificare la propria legislazione sul sistema finanziario Usa per renderlo simile a quello dell’Unione Europea, giudicato molto meno repressivo e regolamentato, contrariamente a quanto vuole la vulgata tradizionale.
Del resto abbiamo già notato, in articoli delle settimane scorse, come all’origine della crisi debitoria e finanziaria in Europa vi sia tra le concause anche l’indiscriminata libertà di movimento dei capitali, la quale non è stata accompagnata durante il processo d’integrazione finanziaria —mercato unico europeo e moneta unica— da un comune apparato legislativo fra i Paesi che costituiscono l’Unione.
Il punto è capire chi è nelle condizioni di dettare il trattato al proprio partner commerciale e la risposta non sembra granché complessa: l’Europa, dilaniata da condizioni economiche in costante peggioramento e dalla frammentazione politica in presumibile aumento dopo l’esito delle elezioni di maggio, non pare in grado di far valere le proprie ragioni su quelle statunitensi.
Inoltre, il commissario europeo per il commercio, il belga Karel de Gucht nel ruolo di negoziatore, si è già espresso positivamente rispetto all’urgenza di una partnership commerciale atlantica.
Se l’amministrazione Obama saprà inserirsi nello scontro che caratterizzerà la prossima legislatura europea — quella fra un nutrito gruppo di euroscettici e un maggioritario schieramento trasversale popolar-socialista di euroconvinti — avrà vita facile ad imporre con il sorriso sulle labbra tutte le clausole favorevoli agli americani facendo passare in sordina gli interessi dei Paesi europei.
Qualcuno è già corso parzialmente ai ripari: la Francia, che rappresenta in sede europea l’interlocutore più critico del TTIP e gelosa custode di una propria diversità nazionale, ha chiesto e ottenuto di eliminare il settore dell’audiovisivo dai negoziati. Scelta pienamente in linea con le direttive europee, le quali sistematicamente escludono i servizi audiovisivi dall’ambito degli accordi bilaterali per la libertà di commercio; questa richiesta si è resa necessaria quando si è compreso che la liberalizzazione totale di settore avvallerebbe in toto gli interessi delle grandi compagnie statunitensi di distribuzione audiovisiva non lineare, come Amazon o Netflix.
Come pubblicato dentro al Libro verde della Commissione Europea (Prepararsi a un mondo audiovisivo della piena convergenza: crescita creazione e valori, Bruxelles 2013): “non solo debbano essere mantenuti gli attuali strumenti di sostegno, tutela e protezione del settore audiovisivo europeo, ma che si debbano presidiare con maggiore attenzione anche le nuove modalità di fruizione dei contenuti che nel volgere di poco tempo assumeranno progressivamente una dimensione sempre più rilevante”.
Nello svilupparsi dei negoziati è probabile che si assisterà a un escalation di richieste di “eccezionalità” da parte di chi avrà la forza per imporsi: le liberalizzazioni piacciono solo quando non ci riguardano.
Contenziosi
L’ultimo punto, forse il più allarmante che si prospetta dentro uno scenario di approvazione del TTIP, è quello legato alla risoluzione di controversie internazionali.
Verrebbero creati appositamente dei tribunali internazionali di risoluzione delle dispute fra aziende e governi nazionali, qualora le prime ritenessero una particolare legislazione contraria agli interessi libero-scambisti dei trattati, con alcune grosse conseguenze: la prima sarebbe quella di accettare che gli interessi di un gruppo multinazionale possano essere considerati alla stessa stregua di quelli di un Governo o di un Parlamento — e sarebbe un precedente più unico che raro nella Storia del Diritto.
La seconda consisterebbe nell’amplificazione eccessiva delle disparità che già oggi esistono tra piccola o media azienda e grande multinazionale: quale azienda di medie dimensioni potrebbe infatti affrontare l’eccessivo onere economico di un contenzioso simile? La risposta è nessuna.
Al contrario aumenterebbero a dismisura i procedimenti intentati dalle lobby nei confronti di singoli Paesi restii all’adozione di alcune misure —per esempio alla libera vendita di alcuni farmaci, o chissà in futuro delle armi— con sconvolgimenti facili da immaginare anche nell’architettura legislativa, se non costituzionale, degli Stati.
Del resto è già accaduto nel recente passato: la Philip Morris ha intrapreso un’azione legale contro lo Stato dell’Uruguay, colpevole di aver firmato un accordo con l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel quale si prevede, fra gli altri punti, di apporre sui pacchetti segnali di nocività e di vietare il fumo all’interno di locali chiusi. La capofila delle grandi del tabacco contesta allo Stato sudamericano la violazione di un precedente accordo intrapreso con la Svizzera (Paese dove la Philip risiede legalmente) per la protezione degli investimenti fra Montevideo e Berna. Chiede la bellezza di due miliardi di dollari in risarcimento, senza contare l’importanza del precedente storico e giuridico.
Per non parlare della recente causa intentata da Lone Pine, multinazionale energetica, contro il Quebéc per la sua legislazione avversa al fracking — il metodo di estrazione di gas di scisto basato sulla pressione di un fluido per creare una frattura nello strato roccioso. Tale causa è stata resa possibile proprio grazie al fatto che il Canada fa parte degli accodi NAFTA per il libero scambio nordamericano.
Di snodi critici il TTIP ne offre dunque parecchi che andrebbero approfonditi ogni giorno sulla stampa e dai media in generale. Per il momento invece la discussione è completamente assente dal dibattito politico europeo, mentre gli unici dati disponibili al momento sono quelli proposti dal sopraccitato studio per la Commissione Europea e che stimano in cifre da capogiro i vantaggi economici del TTIP: esportazioni europee verso Usa +28% e una ricchezza disponibile per nucleo familiare europeo (quattro persone di media) che aumenterebbe di 545 euro annui.
Rose e fiori si sprecano e il solo problema di cui queste cifre non sembrano tenere conto è l’assoluta impossibilità di prevedere con esattezza gli esiti di una tale operazione — basti ricordare che lo stesso Bill Clinton stimava negli anni Novanta l’impatto del NAFTA sull’occupazione americana intorno ai venti milioni di nuovi posti di lavoro. Non è proprio andata a finire così.
Del resto se anche quelle cifre fossero valide, si commette come al solito l’errore di considerare l’Europa in maniera uniforme, quando abbiamo purtroppo imparato a riconoscere che non è così: un aumento delle esportazioni (tutto da verificare con il cambio euro-dollaro attuale) non è detto che si spalmi sulle diverse regioni europee e potrebbe addirittura incidere in profondità sulle divergenze nazionali fra singoli Paesi, aumentando le tensioni interne all’Unione.
Un noto proverbio americano, fatto proprio dagli economisti del mondo intero, recita “Non esistono pranzi gratis”. Sarebbe il caso di tenerlo sempre ben presente.
@Frafloris
Photo credit USGW Fair use