Del: 14 Maggio 2014 Di: Francesco Floris Commenti: 1

Una nuova cortina di ferro spezza in due tronchi il continente europeo.
Idealmente si colloca lungo i precari confini fra la Crimea e l’Ucraina, dove all’ombra di una guerra civile sempre più concreta si combatte un’altra battaglia, meno cruenta ma non per questo meno importante.
Una Guerra fredda formato ventunesimo secolo che vede coinvolte Russia, Unione Europea e Stati Uniti d’America – con la Cina osservatore attento agli sviluppi della vicenda – per il predominio energetico.

È inutile cercare di nascondersi dietro a un dito: le tensioni odierne in territorio ucraino, le rivendicazioni, le promesse di aiuti finanziari da parte del Fondo Monetario Internazionale a Kiev – indebitata nei confronti di Gazprom per 2,2 miliardi di euro – sono l’estrema conseguenza di uno scontro economico fra UE e Cremlino celato dietro la coltre della diplomazia e delle relazioni internazionali.

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Da almeno tre anni la Russia si è imposta come principale esportatore di risorse energetiche in Europa, battendo in volata Algeria e Norvegia – unico paese del continente ad essere dotato di consistenti risorse di gas naturale.
Il punto è cercare di capire chi tiene il coltello dalla parte del manico fra compratore e venditore, quale fra i due soggetti è in grado di far valere le proprie ragioni in sede di discussione: da qualche mese il Governo russo sta intavolando una serie di trattative con Pechino – all’interno di quello che a tutti gli effetti sembra un “progetto oriente” – per diversificare i propri mercati di sbocco evitando così di essere legato a doppio filo ai destini di un’Europa che vede rallentare i propri consumi energetici, in parte a causa della cosiddetta “rivoluzione rinnovabile” (tutta da chiarire nella sua effettiva portata) e in parte a causa della crisi economica che ha massacrato interi comparti produttivi e costretto le famiglie a rivedere al ribasso i propri consumi – soprattutto nei paesi meridionali del vecchio continente.
Allo stesso tempo a Bruxelles si comincia a discutere di liberalizzazione del mercato del gas e dell’elettricità, della necessità di trovare nuovi potenziali fornitori, magari in America latina, di implementare le politiche sulla diversificazione energetica, oltre che di separazione fra produttori e trasportatori di energia – aprendo così un pericoloso contenzioso con Gazprom nel merito del progetto South Stream, il gasdotto in mano alla società russa, approvato nell’estate del 2007 che dovrebbe connettere energeticamente Russia e Unione Europea eliminando dal percorso ogni altro paese extracomunitario.
Gazprom ha già stipulato degli accordi bilaterali con sette paesi europei, di fatto riconoscendo come interlocutori i singoli Stati nazionali e bypassando le istituzioni comunitarie; il commissario europeo all’energia, il tedesco Günther Oettinger, rivendica invece il pieno diritto della Commissione a supervisionare le infrastrutture di South Stream e le tariffe imposte dagli accordi.
Di fatto chiede di trasformare da russo ad europeo un progetto in corso d’opera.

Il problema in Europa è sempre lo stesso: mentre Oettinger chiedeva di poter agire a nome di tutti gli Stati membri, i colossi energetici nazionali come Eni in Italia o Edf in Francia, ma anche la Banca di Sviluppo Ungherese o la DEFSA greca, si accordavano commercialmente con Gazprom per potersi accaparrare una fetta della torta.
In Italia Eni intrattiene da anni rapporti commerciali fittissimi con la Russia: è partner nella costruzione di South Stream e giusto sei mesi fa ha ceduto le proprie quote di partecipazione in Severenergia – società titolare di licenze per l’esplorazione e la produzione di idrocarburi nel territorio dello Yamal Nenets, in Siberia – a Gazprom per un valore di 2,9 miliardi di dollari.
È difficile immaginare che la società fondata da Mattei possa agire contro gli interessi strategici nazionali, anche qualora dovesse essere completamente privatizzata, ed è praticamente impossibile che la recente nomina di Claudio Descalzi ad amministratore delegato della società possa intaccare in profondità nove anni di politica Scaroni. Non ci sono le condizioni e non ci sono i tempi.

Se prendiamo poi atto delle parole del ministro dell’Economia e dell’Energia tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, il quale sfoggiando per l’occasione un sano realismo ha dichiarato che “molte persone agiscono come se ci fossero tante altre fonti dalle quali l’Europa può importare il gas, ma non è così” sottolineando il fatto che “la Russia ha adempiuto ai propri obblighi contrattuali anche nei periodi peggiori della Guerra fredda”, ci accorgiamo di come a oggi non esistano alternative credibili alla dipendenza da Mosca. Forse fra dieci anni il panorama sarà cambiato drasticamente, anche in funzione delle scelte che governi e giganti energetici avranno preso, ma per il momento vale la pena di tenere i piedi bene ancorati al suolo ricco di giacimenti della Federazione.

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Tenendo sempre presente che rischi concreti legati alla “chiusura dei rubinetti russi”, se mai si giungesse a questa soluzione per punire l’Ucraina in seguito al mancato pagamento dei debiti o a un’ulteriore escalation della crisi, non sono così campati per aria come si potrebbe credere: Putin ha già dimostrato nel recente passato di capire perfettamente quando il gioco si fa duro.
Nell’inverno del 2009 Mosca decise di tagliare di netto le forniture in seguito al ritiro dei rappresentanti ucraini dal negoziato con Gazprom sul prezzo del metano, accusando nel frattempo Kiev di aver sottratto illegalmente, dai gasdotti che attraversano la steppa, milioni di metri cubi di metano destinati all’Europa.
Purtroppo nel nostro mondo anche le colpe, vere o presunte, sono globalizzate; ed è così che in seguito a questa decisione diversi paesi limitrofi furono duramente colpiti: dalla Grecia alla Repubblica Ceca, che subirono un taglio collaterale delle proprie forniture nell’ordine del 70%, passando per la Bulgaria che bloccò alcuni importanti distretti industriali per assenza di materie prime, fino al caso estremo della Slovacchia, costretta a dichiarare lo stato di emergenza.

L’Europa continentale e parzialmente l’Italia hanno meno da temere visto che dispongono di ampie riserve di gas, accumulate con lungimiranza negli anni, che permetterebbero di sopperire per diverse settimane al peso di dure sanzioni russe. Ma con l’Europa a 28 che conta tra le proprie fila Slovenia, Croazia e le Repubbliche baltiche, oltre che le nazioni sopraccitate, la musica è ben altra.
Non sembra dunque il caso di mostrare i muscoli al pugile Vladimir, perché la morale della fiaba è che un peso piuma ha tutto da perdere contro un peso massimo.

Da un punto di vista europeo lo stallo e l’attesa logorano almeno quanto le decisioni avventate: la diplomazia sussurra frasi incoerenti, minacciando sanzioni commerciali alla Russia un giorno e invitando alla calma il giorno seguente.
Di fatto non esiste una politica estera (e quindi energetica) comune e l’egemonia tedesca, tanto vigorosa nell’imporre all’Unione la propria linea di politica economica, sembra balbettare intimidita dinnanzi alle sfide che esulano dai confini comunitari.

In questo scenario ci sono alte probabilità che una scossa tellurica in grado di scardinare la situazione attuale possa arrivare più da eventi drammatici, magari collegati alle Presidenziali ucraine, che non dalle salvifiche elezioni per il Parlamento Europeo, avvolte oramai da una coltre di speranze più taumaturgiche che concrete.

Cadono entrambe il 25 maggio e sarà quasi impossibile distinguerle.

Francesco Floris
@FraFloris
Photo Credit CC Teteria Sonnna, EnergieAgentur.NRW, Thawt Hawthje
Francesco Floris
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Collaboratore de Linkiesta.it, speaker di Magma, blogger.

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