Il 17 marzo scorso ha destato un certo scalpore la notizia del primo articolo di giornale interamente scritto da un programma per computer. Si trattava di un breve lancio d’agenzia, pubblicato dal Los Angeles Times, che informava di un terremoto verificatosi la mattina stessa nell’area californiana. L’autore, un algoritmo chiamato “Quakebot”, era stato programmato apposta per stilare in automatico un breve articoletto in caso di terremoto, così da risparmiarne il compito ai redattori –poco più che una routine giornalistica– e battere sul tempo le agenzie.
Il caso in sé non è nuovo (su queste stesse pagine mi sono già occupato di Racter, il primo algoritmo-poeta) ma è servito a rianimare un dibattito che, risalente nel suo nucleo già agli albori della prima Rivoluzione Industriale, ha acquisito un rilievo particolare con la Rivoluzione Informatica tra XX e XXI secolo — ossia: le “macchine” prenderanno il posto degli esseri umani? In che misura? Con quali effetti sulle nostre società?
In uno studio intitolato The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation?, pubblicato a settembre 2013, gli economisti Carl Frey e Michael Osborne dell’Università di Oxford calcolano, sulla base di vari indicatori, la probabilità che una data occupazione venga automatizzata, e stilano così una classifica delle categorie più a rischio. La conclusione raggiunta è quantomeno preoccupante: il 47% degli impieghi (sul mercato del lavoro statunitense) risulta infatti ad alto rischio di automatizzazione, ossia potrebbe essere automatizzato entro dieci o massimo vent’anni.
Ripercorrendo brevemente la storia dell’industrializzazione, gli autori individuando il punto di svolta decisivo che caratterizza la fase attuale: la possibilità di automatizzare anche i compiti, sia cognitivi sia manuali, che fino a poco tempo fa si credevano al di fuori della portata delle macchine, in quanto non standardizzati. Questa possibilità risiede principalmente nello sfruttamento dei cosiddetti big data, le enormi collezioni di dati che i colossi informatici come Facebook e Google possono raccogliere e catalogare con semplicità sempre maggiore. I big data permettono agli algoritmi di bypassare la mancanza di ciò che noi intendiamo per intelligenza, sostituendola con una memoria pressoché illimitata e un database sufficientemente ampio da annullare quasi del tutto la possibilità di errore statistico. Qualche esempio: l’algoritmo di traduzione automatica di Google non incorpora nessuna regola sintattico-grammaticale, ma si basa unicamente su un repertorio sterminato di traduzioni compiute da esseri umani — insomma, ancora non siamo riusciti ad insegnare a un computer a parlare, ma possiamo fornirgli una quantità di frasi e costrutti adatti per ogni occasione, tale da darci l’illusione che possa parlare e ragionare per davvero (pensate a Siri di iOS).
Pur non essendo ovviamente infallibili —proprio nelle ultime settimane ha fatto molto discutere la brutta figura di Google Flu Trends, un algoritmo che si proponeva di monitorare la diffusione dei virus influenzali stagionali basandosi unicamente sui dati delle ricerche degli utenti su Google— è certo che i big data saranno sempre più affidabili ed efficaci, consentendo applicazioni in settori fino a pochi anni fa giudicati immuni all’informatizzazione: dal riconoscimento facciale alla decifrazione della grafia, fino alla sicurezza stradale e all’istruzione universitaria.
Per quanto riguarda invece i compiti di non-routine manuali, i big data si affiancano agli straordinari sviluppi della robotica. L’esempio più noto alle cronache viene sempre da Google, con le sue auto senza pilota attualmente in fase di rodaggio in California; ma sono in via di sperimentazione anche robot-chirurghi di precisione, tanto per dirne una. I settori lavorativi che saranno maggiormente coinvolti sono quelli legati ai trasporti e alla logistica –già ampiamente interessati dall’automatizzazione– ma anche manifattura, packaging, costruzione, agricoltura, lavori domestici — dove già i robot vedono il proprio mercato crescere del 20% circa ogni anno.
Dalla prima Rivoluzione Industriale ad oggi si può così individuare un doppio movimento. La tecnologia del XIX secolo andava a colpire principalmente gli artigiani, richiedendo una maggiore quantità di forza lavoro non specializzata da impiegare in fabbriche e stabilimenti sempre più estesi. Parallelamente, la razionalizzazione del lavoro, con il passaggio dal vapore all’elettricità e l’espandersi dei mercati e delle imprese, ha favorito lo sviluppo di un ceto intermedio e di un ceto dirigenziale, dotati di un livello di istruzione sempre maggiore. Proprio la larga diffusione dell’istruzione e dell’educazione superiore, assieme all’enorme espansione del benessere materiale, è tra i principali effetti dell’industrializzazione tra Otto e Novecento. La progressiva automatizzazione del lavoro, invece, sta agendo con una forza di segno opposto, erodendo posti di lavoro e colpendo soprattutto le fasce intermedie: commessi, cassieri, addetti alla logistica, impiegati d’ufficio, i cui salari hanno subito un forte decremento a partire dagli anni ‘80. La Rivoluzione Informatica ha contribuito in questo modo alla crescita delle disuguaglianze negli ultimi tre decenni, polarizzando il mercato del lavoro, tra occupazioni manuali a bassissimo reddito da una parte e incarichi –manageriali, tecnici– sempre più specializzati e sempre meglio retribuiti dall’altra. Questa fase di contrazione rischia di aggravarsi man mano che l’automatizzazione si abbatte su un ventaglio più ampio di occupazioni medio-basse: operai, muratori, piloti, autotrasportatori, ma anche televenditori, assistenti legali, assicuratori, insegnanti, e magari –come nel caso di Quakebot– giornalisti.
Fino ad oggi il sistema ha sempre reagito positivamente alle innovazioni tecnologiche. Anche quello attuale potrebbe essere solo uno stress dovuto alla transizione, non diverso dalle tensioni sociali che hanno segnato la prima fase dell’industrializzazione, tra Sette e Ottocento. Al prossimo assestarsi dell’evoluzione tecnologica è possibile che il mercato si sia già riorganizzato di conseguenza, e con successo. Ma la paura, non del tutto ingiustificata e già adombrata da Keynes nel 1933, è che la velocità dello sviluppo tecnologico, che ci permette di economizzare il lavoro, superi la nostra capacità di trovare nuovi impieghi al lavoro stesso.
Già oggi la gran parte della popolazione dei Paesi economicamente più avanzati è impiegata nel settore terziario e nel cosiddetto “terziario avanzato”: quando anche queste occupazioni potranno essere svolte, con maggiore efficienza e minori costi, da algoritmi e robot, sarà in grado di svilupparsi una domanda adeguata di forza lavoro ancora più lontana dalla produzione agricola e industriale? E, tirando all’estremo questo trend, fin dove potremo arrivare?
Bisognerà in qualche modo risolvere l’intima contraddizione che corre tra la spinta all’automatizzazione del lavoro —che libera l’uomo dagli incarichi più gravosi, aumenta la produttività e il benessere— e un sistema sociale interamente basato sul binomio lavoro-reddito. Tra le proposte di soluzione più eccentriche, si conta quella di una sorta di “socialismo digitale”: in un mondo in cui tutto il lavoro sarà svolto da robot, algoritmi e stampanti 3D, gli esseri umani potrebbero essere pagati, per esempio, in base al traffico informatico che generano (dal momento che i dati che forniscono con la propria attività online sono a tutti gli effetti una materia prima redditizia); e dedicarsi a migliori attività.
Ma le prospettive che la situazione attuale lascia presagire sono meno utopistiche. Un mondo automatizzato sarà anche un mondo gestito dall’alto dai pochi che controlleranno il funzionamento del sistema — delle macchine e delle masse di dati, come oggi le multinazionali dell’informatica. Accanto all’emergenza occupazionale (come smaltire l’offerta in eccesso, se agli esseri umani resteranno solo le occupazioni che richiedono un elevato livello di istruzione e specializzazione?) si delinea un quadro sociale polarizzato, verticale, quasi feudale. Dobbiamo domandarci se e come un modello del genere, già nell’immediato futuro, potrà essere compatibile con la libertà e la democrazia.
Sebastian Bendinelli
@Se_ba_stian
Photo credits: Silvestre Loconsolo, Foto Mercati, Charles Perrault