
Fissare negli occhi la bomba di Piazza della Loggia è come guardare il volto di un passante occasionale in mezzo a un gruppo di conoscenti intimi: gli otto morti di quel 28 maggio di quarant’anni fa non sono sufficienti a spronare la memoria, sfigurano davanti alle carneficine che hanno sporcato di sangue il suolo pubblico durante gli anni di piombo — numeri degni di quest’etichetta così realisticamente macabra.
1969, Piazza Fontana, diciassette morti e ottantotto feriti.
1980, Stazione di Bologna, ottantacinque morti e oltre duecento mutilati.
Il 28 maggio 1974, la più classica delle mattine piovose bresciane si trasforma in dramma: durante una manifestazione organizzata dal Comitato Unitario Permanente Antifascista, in concomitanza con lo sciopero generale proclamato dai sindacati, un ordigno nascosto dentro un cestino esplode, sollevando rifiuti che rimarranno sospesi in aria per decenni.

Al momento dell’esplosione sta parlando Franco Castrezzati, Segretario generale dei metalmeccanici Cisl, che da qualche minuto stava arringando la piazza sui pericoli della risorta violenza di destra. Castrezzati parla di Piazza Fontana, della strage sul direttissimo Palermo-Torino — il Treno del Sole, fatto deragliare a Gioia Tauro nell’estate del ’70 — di Giorgio Almirante che sta ricostituendo il defunto Partito fascista sotto nuove spoglie, in barba alla legge Scelba [Legge del 1952 che ne vietava la riorganizzazione sotto qualsiasi forma].
Il boato delle 10:12 gli strozza in gola la parola “Milano”, e ciò che si sente nella registrazione di quella mattina è quanto di più simile vi sia a un «Si salvi chi può!».
Ogni discussione sul periodo stragista, sul “doppio stato” e sugli anni di piombo incontra prima o poi un ostacolo insormontabile: quella distinzione, formale e sostanziale, fra verità storica e verità giudiziaria — due solchi nella vicenda repubblicana italiana che sembrano non sovrapporsi mai.
La verità giudiziaria su Piazza della Loggia prevede il passaggio di indagati e imputati, esecutori materiali e mandanti morali, carte processuali archiviate, assoluzioni per insufficienza probatoria ed infine la scure della Corte di Cassazione che interviene per azzerare tutto: il 21 febbraio 2014, durante l’ennesimo processo istruito dalla magistratura bresciana, la Cassazione ha annullato le assoluzioni per gli imputati Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte – al tempo assiduo informatore dei servizi segreti militari – e confermando invece le assoluzioni per Delfo Zorzi (oggi cittadino giapponese) e Francesco Delfino, all’epoca capitano nel Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia.
La “verità” storica si nutre di un numero composito di elementi contrastanti: i depistaggi delle ore immediatamente successive alla strage, quando ordini ignoti impartirono alle autopompe bresciane di ripulire la piazza, cancellando possibili prove prima di qualunque perizia tecnica; la scomparsa di reperti dai cadaveri; le veline ignorate nei giorni precedenti, quando inquietanti volantini firmati Ordine Nero vennero inviati alla Questura e al Giornale di Brescia per annunciare ritorsioni sui militanti antifascisti e sulle forze dell’ordine e sui giudici rei di spalleggiarli.
L’aver seguito nelle prime fasi delle indagini la sola pista “bresciana” o “valtellinese” che conduceva a vicoli ciechi, trattando l’eversione nera alla stregua di criminalità comune, invece di inquadrarla nel contesto generale, fu un errore imperdonabile: il golpe cileno di Pinochet, l’11 settembre 1973, aveva mutato la natura e le aspirazioni del neofascismo a livello internazionale e seguire tracce locali, come fece la magistratura, significava sottovalutare la portata del fenomeno.

Ovviamente anche il contesto politico interno giocò la sua parte: due settimane prima, il 13 di maggio, il referendum abrogativo per l’abolizione della legge sul divorzio, approvata solo quattro anni prima, vide una vittoria netta del fronte progressista sulla compagine Dc-Msi. L’ordigno di Brescia rispondeva anche a quella vittoria politica, quando, come ci ricorda Benedetta Tobagi nel suo libro-inchiesta Una stella incoronata di buio – Storia di una strage impunita, i comunisti potevano rallegrarsi per una sconfitta così eclatante della Democrazia Cristiana e magari cullare sogni di sorpasso storico.
Che la bomba di Piazza della Loggia avesse un’essenza politica prima ancora che criminale, ce lo ha ricordato Manlio Milani, che quella mattina perse la moglie, Livia Bottardi. Il Presidente della Casa della Memoria ha recentemente ribadito come non si possa comprendere la Strage bresciana senza ricordare anche le conquiste in positivo degli anni Settanta, le mobilitazioni popolari e le lotte coronate da successo.
L’utilizzo di esplosivi serviva proprio, nel contesto di fermento popolare crescente, a frenare la grande onda dei processi politici, a incutere timore nella società civile, a inculcare nella popolazione la norma sociale “che ognuno deve stare al suo posto”.
C’è una dimensione allegorica nei nomi dei morti del 28 maggio 1974: Vittorio Zambarda e Euplo Natali, due partigiani che avevano contribuito a creare la società adesso in discussione; un operaio, Bartolomeo Talenti, che simboleggia il valore del Lavoro sancito nel primo articolo della Costituzione; cinque insegnanti iscritti alla Cgil ― Luigi Pinto, Livia Bottardi Milani, Giulietta Banzi Bazoli, Clementina Calzari Trebeschi e Alberto Trebeschi ― a significare l’importanza dell’istruzione nei processi culturali.
La bomba colpiva il cuore e la tradizione della sinistra italiana ed è solo partendo da questa considerazione, cioè che l’attentato fosse pienamente “sensato” nelle logiche che dominavano lo scontro politico, che si ha il diritto di continuare a parlarne.
Gli accorati appelli a “fare i conti con il proprio passato” che non tengano presente la dimensione conflittuale di quel decennio, suonano vuoti e inutili ― strozzati in gola come il comizio interrotto a metà a Piazza della Loggia.
C’è una terza verità, che potremmo definire “pasoliniana”: quando il 14 novembre 1974, negli Scritti corsari pubblicati dal Corriere della Sera, l’intellettuale bolognese scrive: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale e uno scrittore […] Che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero», le sue parole suonano definitive.
Non c’è ambiguità storica o giudiziaria che tenga davanti alla forza di alcune frasi.
Il rischio di sembrare retorici, ogni qual volta si affronta una ricorrenza così ingombrante, è concreto e forse inevitabile: cosa significa “ricordare” quando la china della storia allontana un evento cruciale dal momento presente?
Nell’impossibilità di fornire una risposta allora è meglio sapere ― come sapeva Pasolini, senza prove e senza indizi.
È meglio ascoltare.
Francesco Floris
@Frafloris
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