Il Cairo, 29 dicembre — Dopo settimane di intimidazioni e pestaggi, otto reporter di Al Jazeera, appartenenti a diverse nazionalità, vengono prelevati da case e uffici dalle autorità egiziane, arrestati e incarcerati. L’accusa è di aver pubblicato sul canale Al Jazeera English informazioni false e parziali riguardanti gli avvenimenti politici degli ultimi mesi, a sostegno della Fratellanza Mussulmana, da poco ridefinita organizzazione terroristica dal governo egiziano, a cui appartiene anche l’ex presidente Mohamed Morsi, deposto lo scorso 3 luglio con un colpo di stato organizzato dall’esercito.
In un comunicato stampa rilasciato poco dopo l’arresto, i procuratori affermano che l’attività giornalistica è sotto inchiesta perché praticata per «Indebolire l’ordine dello Stato, danneggiando l’interesse nazionale del Paese, disturbando la pubblica sicurezza, instillando la paura tra la gente e causando danni all’interesse pubblico, tramite il possesso della comunicazione, riprese, trasmissioni video senza autorizzazione da parte delle autorità interessate».
Il mondo grida allo scandalo, i capi di stato sbattono i pugni, la società civile si appella alla libertà di stampa, richiede l’immediata e perentoria scarcerazione dei reporter (in particolare di quelli della propria nazionalità, grazie), vengono creati anche un apposito hashtag e una campagna twitter, così che tutti si sentano partecipi della protesta con un semplice clic. Pasciuti e soddisfatti, gli uomini liberi si lasciano inondare dalla piacevole sensazione che coglie chi ha fatto la cosa giusta, mettono a riposo la propria sete di giustizia e ciò che ne deriva.
Il processo intanto inizia il 20 febbraio, coinvolge una ventina di giornalisti definiti “The Mariott Cell” — dal nome dell’hotel in cui alloggiavano — ma solo otto sono presenti, tra cui l’australiano Peter Greste; la dozzina restante, che comprende tra gli altri Rena Netjes del quotidiano olandese Het Parool e i britannici Dominic Kane e Sue Turton di Al Jazeera, è ancora ricercata e viene processata in contumacia. Il governo statunitense rilascia una dichiarazione che definisce il processo “una grave mancanza di rispetto per i diritti elementari”, pare più il rimprovero di un’arzilla vecchietta che agita il bastone da passeggio contro un paio di ragazzini su uno skateboard, ma l’importante è l’impegno, no?
Nel corso dei mesi girano sulla rete le lettere dei giornalisti detenuti nelle carceri egiziane, insieme a quelle degli attivisti arrestati durante una protesta ad agosto, anch’essi accusati di attività terroristica. Oltre a ribadire la propria innocenza, ricordano il modo in cui sono stati arrestati, i castelli di accuse privi di fondamento e descrivono le condizioni delle carceri.
Peter Greste, capo dell’ufficio corrispondenze di Al Jazeera, scrive «Sono nella prigione di Tora — un vasto complesso a sud della città, dove le autorità di routine violano i diritti dei detenuti legalmente sanciti, negando le visite di avvocati, mantenendo celle bloccate per 20 ore al giorno (24 nei giorni festivi) e così via. Ma tutto questo è relativamente benigno rispetto alle condizioni di miei colleghi».
I colleghi in questione sono Mohamed Fahmy, giornalista egiziano-canadese, e Baher Mohamed, producer egiziano, accusati di essere membri effettivi della Fratellanza Mussulmana e per questo detenuti nella Scorpion Prigion, ala dedicata ai presunti terroristi. Secondo Greste «vivono 24 ore al giorno nelle loro celle infestate dalle zanzare, dormendo sul pavimento con libri o materiali di scrittura, unico strumento per spezzare il tedio dell’anima». A Fahmy in particolare è stato negato il trattamento sanitario per un infortunio al braccio subito poco prima dell’arresto.

Durante il processo vengono mostrate le supposte prove di colpevolezza: video, articoli, registrazioni — nessuna delle quali pare avere la minima rilevanza politica o giudiziaria, alcuni sono addirittura stati girati dalla BBC e non da Al Jazeera, altri coinvolgono il cantante pop australiano Gotye.
Nonostante l’incoerenza delle accuse e l’irrilevanza delle prove, dopo dodici udienze e 160 giorni di detenzione, vengono emesse le pene. Greste e Fahmy — che ha perso quasi completamente l’uso del braccio destro — sono condannati a sette anni di carcere, mentre Baher Mohamed a dieci, a causa dell’ulteriore condanna per “detenzione di armi senza licenza”, un bossolo, per la precisione. I giornalisti ancora ricercati vengono condannati a dieci anni.
Nello stesso processo vengono giudicati anche cinque studenti accusati di aver partecipato a manifestazioni antigovernative e il responsabile di un’organizzazione di beneficienza islamica. Abdullah Elshamy, arrestato a dicembre come giornalista, è stato invece rilasciato a causa del deterioramento delle proprie condizioni fisiche, dovuto ad uno sciopero della fame durato quattro mesi.
Non si tratta della prima condanna in assenza effettiva di prove: da mesi in Egitto fioccano arresti per presunte attività antigovernative o terroristiche, che ormai comprendono anche la libertà di stampa, fatto per cui il Paese è stato dichiarato tra i più pericolosi al mondo per chi compie attività giornalistica.
Oltre ai giornalisti condannati pochi giorni fa, le carceri egiziane hanno recentemente accolto anche venticinque attivisti (tra cui il blogger Alaa Abdel Fattah), condannati a quindici anni ciascuno per aver violato la legge “Anti-protesta” firmata dall’ex presidente Adli Mansur il 24 novembre e messa rigorosamente in atto con centinaia di arresti dall’ex capo dell’esercito e neopresidente eletto Abdel Fattah al-Sisi.
Al Jazeera ha dichiarato: «Oggi tre colleghi e amici sono stati condannati, per aver fatto un brillante lavoro ed essere stati grandi giornalisti. “Colpevoli” di raccontare storie con grande abilità e integrità. “Colpevoli” di difendere il diritto all’informazione dei cittadini, perché sappiano cosa sta succedendo nel loro mondo.»
Giulia Pacchiarini
@GiuliaAlice1