Passate le elezioni europee, l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica – com’era prevedibile – è andata via via scemando. In Italia, frastornati dall’imprevisto e straordinario successo del PD di Matteo Renzi, attraversiamo un periodo di relativa calma politica, mentre le opposizioni boccheggiano e faticano a riorganizzarsi, e lo scandalo del Mose a Venezia tiene banco sui giornali.

Eppure la fase più delicata e importante per la definizione dei futuri equilibri dell’Unione si svolge in queste settimane, tra vertici, summit, trattative, incontri più o meno formali, più o meno riservati: una fase di laboriose contrattazioni, in primo luogo tra i partiti politici, chiamati a ridisegnare la geografia delle alleanze nel nuovo Parlamento. Così, mentre a destra prende forma quella curiosa “internazionale del nazionalismo” che vuole unire i fronti dell’estrema destra populista ed euroscettica, sotto la guida della vittoriosa Marine Le Pen, Beppe Grillo cerca di far digerire ai suoi l’alleanza con lo Ukip di Nigel Farage e la sinistra di Tsipras lotta per superare le prime divisioni interne e i pasticci con le candidature.
L’Unione Europea si trova in una fase di stallo, una quiete prima della tempesta. Con l’eccezione dell’Italia, i due schieramenti tradizionali hanno registrato ovunque un significativo arretramento, ma sono ancora al governo. Almeno fino alla prossima tornata di elezioni politiche nazionali, dunque, il successo dei partiti euroscettici (quando non apertamente nazionalisti) resterà confinato al Parlamento Europeo, che, per quanta importanza possa avere, non è certamente l’organo decisionale più importante dell’Unione. Le forze tradizionali – se così possiamo chiamarle, accomunando non del tutto propriamente Popolari e Socialisti – hanno ora tutto l’interesse a mantenere il PE in questo stato di minorità, con buona pace del processo di democratizzazione delle istituzioni comunitarie. D’altra parte, devono giocare bene le proprie mosse e cercare di sottrarre terreno agli oppositori, se non vogliono essere definitivamente scalzate nel giro di pochi anni (come sembra ormai quasi inevitabile in Francia e Regno Unito). Optare per la conservazione, con il rischio di aggravare il senso di distanza tra Unione e cittadini, potrebbe rivelarsi controproducente.
Il primo passaggio cruciale è la nomina
del presidente della Commissione.
Per la prima volta quest’anno i principali partiti politici europei hanno voluto indicare esplicitamente un proprio candidato, accogliendo le innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona che, pur timidamente, ha inteso normalizzare il processo di formazione degli organi comunitari, avvicinandolo ai meccanismi delle democrazie parlamentari. Con questo intento è stato istituzionalizzato il Consiglio Europeo (la riunione dei capi di stato e di governo dei paesi membri), che prima del 2009 non aveva statuto preciso (come il G7 o G8, per intenderci), ed è stata ridotta la sua discrezionalità nella nomina del Presidente della Commissione che, in quanto capo dell’unico organo dotato di piena iniziativa legislativa, è a tutti gli effetti la figura più potente dell’Unione. Secondo il nuovo dettato, il Consiglio Europeo sceglie il Presidente della Commissione tenendo conto del risultato delle elezioni. Si capisce come tutto cambi a seconda che si dia un’interpretazione più o meno estensiva di questa clausola.
Dopo una campagna elettorale incentrata per la prima volta anche sulle persone dei candidati alla presidenza, con tanto di confronti televisivi all’americana, a urne chiuse e scrutini ultimati i titolari dei governi nazionali hanno dato inizio al balletto delle trattative come se nulla fosse, esibendo interessi particolari e veti incrociati secondo la migliore tradizione delle riunioni condominiali.

Jean-Claude Juncker, il lussemburghese candidato del PPE – partito che, nonostante il forte calo, ha comunque ottenuto la maggioranza relativa dei seggi – sembra non piacere più a nessuno. David Cameron, che di Juncker non apprezza l’europeismo ortodosso, ha addirittura minacciato l’uscita del Regno Unito dall’Unione se dovesse essere nominato presidente. Angela Merkel, che almeno formalmente lo appoggia, avrebbe tuttavia – secondo indiscrezioni del Telegraph – fatto pressioni su Hollande per accettare la nomina dell’attuale direttrice del FMI Christine Lagarde. Indiscrezioni che cominciavano a concretizzarsi (forse anche con l’appoggio di Matteo Renzi), finché la stessa Lagarde non ha decisamente smentito una simile prospettiva.
In questo marasma, molti intellettuali (tra cui Zygmunt Bauman, Jürgen Habermas e Barbara Spinelli — anzi no) hanno firmato un appello per chiedere ai leader europei di rispettare le disposizioni del Trattato di Lisbona e l’esito delle elezioni, e quindi nominare Juncker alla presidenza della Commissione. Altrimenti, si rischia di uccidere sul nascere il flebile spiraglio democratico su cui potrebbe basarsi, in futuro, un’Unione Europea diversa, maggiormente centrata sul ruolo del proprio organo rappresentativo.
Al momento l’accordo sembra ancora lontano. Juncker non ha ritirato la propria candidatura, dichiarando di non volersi inginocchiare ai britannici, ma difficilmente il veto di Cameron potrà essere aggirato (a meno di non accettare per davvero l’uscita del Regno Unito dall’Unione). Venuta meno l’ipotesi Lagarde – di discutibile opportunità politica, peraltro – i capi di governo potrebbero superare l’impasse estraendo dal cilindro una nomina fuori dagli schemi, tale da far passare in secondo piano il mancato rispetto della clausola di Lisbona e, allo stesso tempo, disarmare il fronte degli euroscettici. All’Europa servirebbe un Presidente autorevole, carismatico, capace di guidare l’Unione al di fuori del suo momento più difficile. Caratteristiche che lo stesso Juncker di certo non possiede. Ma è difficile immaginare un candidato simile, finché i governi nazionali si mostrano concordi solo nel limitare l’autonomia delle istituzioni europee e perseverano cocciutamente a gestire l’Unione come un accordo tra privati.
@se_ba_stian