La mattina del 19 maggio abbiamo incontrato Alessandro Robecchi per parlare del suo primo romanzo Questa non è una canzone d’amore, di Pagina99, di satira, politica e giovinastri troppo cresciuti.
Questa non è una canzone d’amore era il romanzo nel cassetto di Alessandro Robecchi, il romanzo in soffitta o il romanzo uscito di getto nell’arco di poche settimane?
Io odio la definizione romanzo nel cassetto: penso che sia una stupidaggine. Tutti hanno il proprio romanzo nel cassetto e spesso si finisce erroneamente con il pensare che basti avere una trama in testa per scriverne uno. Io avevo una storia che ha preso forma lentamente nel tempo prima che iniziassi a scrivere una riga. Poi mi sono messo a scrivere, a riscrivere, a leggere a rileggere, a smontare e rimontare. Un lavoro da artigiano più che da letterato.
La tua attività professionale è quella di corsivista e autore satirico. Quanto ti ha influenzato questa “eredità” nella stesura del romanzo?
Faccio questo lavoro da trent’anni. Ho fatto radio, ho fatto la televisione, i giornali, il corsivista, il critico musicale. Per queste ragioni ho modalità di scrittura sempre differenti: quando si lavora in televisione, ad esempio per Crozza, è sempre un lavoro di squadra e di collettivo. Sei autori dentro una stanza, con modalità simili a quelle sperimentate a Cuore: ci cancelliamo e ci incentiviamo a vicenda. Un lavoro bellissimo pieno di pregi a cominciare dalle persone con le quali entri in contatto, gli stimoli che esse sono in grado di fornirti. Di contro, è molto più faticoso.
Oppure quando scrivi per i giornali sei per forza di cose limitato dal numero di battute, dalle righe che ti sono state imposte o concesse, dagli orari di stampa.
Il romanzo era come avere una prateria davanti: libero di inventare storie, personaggi, nei tempi e negli spazi che consideravo ottimali.
Giornalisti che fanno i romanzieri, romanzieri che si reinventano giornalisti: sei favorevole alla commistione fra generi o, più che altro, fra professioni?
Secondo l’articolo 21 della Costituzione chiunque può scrivere quel cazzo che gli pare, quindi sono favorevole anche al salumiere-romanziere. Detto questo ci sarebbero dei discorsi complessi: può dare fastidio vedere il giornalista televisivo che, forte della propria popolarità e fama pregressa, approfitta di queste ultime per piazzare il proprio romanzo nelle classifiche di narrativa italiana.
Certo sarebbe bello se lettori, e in primo luogo editori, sapessero distinguere tra la roba buona e la fuffa, ricordandosi sempre che gli editori sono muniti di calcolatrice e fanno quindi conti che esulano da certe logiche qualitative. Contro queste logiche devono combattere gli “scrittori veri”, che fanno letteratura vera e si vedono sorpassati da dubbi fenomeni di costume; io alla fine non c’entro perché il mio lavoro era e resta un altro.
I recensori si sono innamorati di un’espressione del risvolto di copertina che recita “giallo a metà fra Scerbanenco e Jannacci”, la utilizzano nelle proprie recensioni con costanza maniacale. Se ti dicessi un più modesto “fra Carofiglio e Benni” come reagiresti?
Benni lo conosco per ovvie ragioni, lo stimo e lo rispetto. Carofiglio lo conosco meno e per il momento incasso promettendo di leggerlo, se non mi piace m’incazzo e ti dico “Ma come Carofiglio?!?”.
La verità è che quando si ha mano un libro difficile da catalogare si ricercano delle similitudini, spesso a spanne, per riuscire ad orientarsi. Nelle mie intenzioni mi ispiravo ad altri giallisti: per la struttura Winslow — capitoli molto staccati, veloci cambi di scena — però anche ad altri nomi che non sono usciti e ai quali mi rifaccio con affetto e in un certo senso gratitudine, Beppe Viola su tutti. È stato un grande milanese.
Una volta che un libro circola nei negozi, nei banchetti o nelle fiere, non appartiene più al suo autore ma più che altro al suo pubblico. Lo può comprare il barista e lo può leggere il docente universitario, diventa loro e su tutto ciò che trovano dentro, che capiscono, io non più alcuna voce in capitolo. Per questo mi rifiuto di definirlo in qualsiasi maniera.
Se escludiamo Bob Dylan e i suoi versi che attraversano la storia, i personaggi che costellano la vicenda non hanno nulla di autobiografico, alcuni sono stilizzati o semplicemente accennati: Flora de Pisis conduttrice televisiva e guru della mezza età italiana, il procuratore “vellutato”, gli appuntati in questura, i due serial killer. Chi sono gli attori di Questa non è una canzone d’amore?
Vero, i personaggi non hanno nulla di autobiografico a parte Dylan che è una malattia e sfocia nella perversione feticista. Quando mi sono trovato nella situazione di dover inventare un personaggio, allora ho iniziato l’attività di collage: gli occhi del passante, il carattere del tuo commercialista, il tic di quello che ti è davanti in coda al supermercato, il modo di dire che hai sentito in metropolitana.
Carlo Monterossi ovviamente non esiste, però ci sono decine di Carlo Monterossi nell’ambiente della Tv, brave persone, stronzi conclamati e pezzi di merda veri.
Volevo che dai caratteri dei protagonisti emergessero anche dati sociali o generazionali: Nadia e Oscar sono i tipici trentenni come ce li immaginiamo: delusi, aspettative zero, precari nella vita e nel lavoro, sottovalutati ma con grandi pregi in termini di competenze. Ho inserito tutti i difetti che un uomo della generazione precedente alla loro possa notare, in particolare il post-ideologismo.
Quando Nadia dice “la generazione dei garantiti mi ha rubato i diritti” io non sono affatto d’accordo con il mio personaggio, perché i diritti li hanno rubati i padroni.
Un romanzo denso di suggestioni: il pretesto dal quale muove l’intera trama è un caso di speculazione edilizia in un campo rom; la ragazza lesbica; i cimeli nazisti; il mondo del precariato; i serial killer; l’autore televisivo sempre in bilico fra peccato e redenzione. Troppa carne al fuco per una prima esperienza narrativa?
Non sono d’accordo: intanto c’è una trama nella quale gli elementi si fondono in maniera armoniosa, inoltre volevo raccontare questa città, Milano, che è una città totalmente orizzontale: i ricchi parlano con i ricchi, i poveri con i poveri, la medio borghesia frequenta la medio borghesia, gli immigrati altri immigrati. Conosci qualcuno che ha un amico rom?
Mi piaceva mischiare gli angoli di questa città, con una sorta di altalena fra alto e basso o anche fra un certo “proletariato della conoscenza” – come può essere Nadia – e un proletariato vero, come può essere Marzia. Volevo che questi pezzi di città e umanità che non s’incontrano mai nella vita reale, s’incrociassero per una volta nella fantasia, o meglio ancora, che si scontrassero.
Quando mi dicono che c’è troppa roba la mia risposta è che la stessa roba c’è nella vita: ci sono i nazisti, c’è la speculazione edilizia, gli scontri fra culture.
Come ripetono sempre i giallisti, in fin dei conti il giallo è un pretesto, la trama gialla è un’occasione che non può essere sprecata.
Il personaggio di Marzia è un’allegoria del sottoproletariato urbano — questa donna vessata e massacrata dall’esistenza, dal suo uomo, da lavori che non stanno né in cielo né in terra, dalla prostituzione forzata, dalle lacrime. Nelle tue intenzioni Marzia esce vittoriosa dal contenitore televisivo Crazy Love, oppure Flora de Pisis riesce ad assorbire qualunque dramma nella finzione televisiva al grido di “anche questo fa fare l’amore”?
Direi di sì. Con la sua storia e la complicità di Monterossi riesce a mettere in crisi l’intero impianto della trasmissione. Marzia è “una proletaria senza rivoluzione” picchiata a morte dal suo uomo, ma alla fine è l’unica che ha un upgrade in questa storia. Io l’ho vista come una liberazione, un’emancipazione dal suo ruolo di subalterna perenne.
Il romanzo è inzuppato di battute sull’Italia e sull’ipocrisia umana, in piena continuità con la tua attività di autore satirico. La creazione della battuta, della frase ad effetto che è quasi aforisma, precede lo sviluppo narrativo della vicenda o è solo un corollario che imbelletta la stessa?
Il mio motto è una frase di Billy Wilder: “Se proprio devi dire la verità, dilla in modo divertente. Quelli che fanno ridere verranno risparmiati”.
Stimolare la risata serve a fissare nella mente dei lettori alcuni concetti e prese di posizione. Nulla di ciò che ho scritto è estrapolato da altri aspetti del mio lavoro, come i corsivi — la mia è una scrittura a flusso perpetuo.
Non voglio dare l’impressione di essermi messo a scrivere in piena notte sotto l’influsso di chissà quale forza magica, perché sarebbe falso. Non credo ai pipponi sul genere “scrivo perché soffro, soffro perché scrivo”; la scrittura è liberazione di energia accumulata, è un momento divertente, semmai i problemi sono altri e precedono questa fase.
Quando stai pensando alla trama che non s’incastra e bestemmi, devi trovare un trucco per legare due blocchi, per incriccare questo pezzo di trama o per mettere in contatto due personaggi. È come avere una finestra sempre aperta, quindi mangi, lavori, vai al cinema e quella finestra rimane aperta in casa tua e le folate di vento si fanno più frequenti.
Poi quando tutto si completa arriva il momento della penna, di editing, di riscrittura: la scena dell’agguato all’auto in via Vittor Pisani è stata riscritta venticinque volte.
In quella scena per dei lunghi istanti non si capisce se stanno sparando addosso a Monterossi e Nadia o se si tratta di un incidente stradale.
È esattamente quello che avviene quando ti sparano mentre sei in macchina. Pensi: “Che cazzo sta succedendo, perché esplode il lunotto?”.
Questa scena ne l’esempio più eclatante, ma l’intero romanzo è attraversato da una sottile linea rossa che collega cinema e letteratura. Si ha l’impressione di leggere una sceneggiatura minuziosa, allargata, dettagliata. Dai dialoghi all’abbigliamento, l’intero immaginario sembra corrispondere più a criteri da serialità televisiva che non a quelli della prosa tradizionale. Quanto ti ha influenzato l’elemento “visivo”?
Nei dialoghi ho inserito almeno due componenti: il primo è una certa tendenza al cabaret, e penso alle conversazioni fra i due killer. In secondo luogo volevo contrapporre a quel linguaggio fasullo da sceneggiato televisivo all’italiana, che abbonda nei vari Don Matteo e aspiranti tali, un sano realismo d’ispirazione quotidiana: negli sceneggiati le persone attaccano conversazione con espressioni del tipo “Che cosa hai fatto?”, mentre nel mondo reale, superata l’età dei dieci anni, le persone dicono “Cazzo hai fatto?”.
Sceneggiatura allargata me lo hanno detto in molti e mi va bene, però ci tengo a sottolineare che non deriva dal cinema, ma piuttosto da altri tipi di scrittura che frequento molto essendo un divoratore del genere. Credo che Lansdale o Winslow abbiano questo tipo di scrittura scandita, ritmata, che mi fa impazzire.
I gialli svedesi hanno un’altra consistenza, dove l’investigatore si alza alle sette, si fa la doccia, va a lavoro come andasse alle Poste, legge il dossier seduto sulla sua poltrona, riflessivo come mamma l’ha fatto. I gialli americani sono tutti caffeina, mescalina, inseguimenti di trentasei ore… pisciano nella bottiglia perché stanno facendo l’appostamento. Sono farine e modalità d’impasto differenti.
La mia è un’altra ancora, più metropolitana, cazzona milanese, ma non deriva dalla cinematografia. Solo che ad un certo punto ti trovi in questa situazione: i due killer devono parlare con l’avvocato, quindi bisogna inventarsi un ufficio, una situazione, una segretaria, i suoi orecchini e la sua camicia, un tavolo che vuoi fare bianco, una finestra troppo luminosa che quando la segretaria entra sembra ancora più figa, i due killer danno un’occhiata, uno ammicca e l’altro se ne frega. È veramente come allestire un set cinematografico senza avere nessuna macchina da presa.
Il narratore emerge di frequente dalle pagine troncando per alcuni istanti lo scorrere del tempo interno. Perché farlo comunicare con i lettori?
Questo sì che è un giochetto derivante da anni di pratica con la satira, serve a creare complicità con il lettore, a fondare un rapporto di reciproca fiducia. Quando Carlo guida verso Samarate e il narratore spunta fuori per dire “Ma cosa stanno facendo questi pazzi, perché non ci pensano da soli al fatto che è una follia andare da un killer armati di cultura generale e buone intenzioni”, questo serve a disinnescare il potere delle parole e delle storie. Vuol dire. “Caro lettore, tutto bello per carità, letteratura, libri, però ci stiamo divertendo alla fine, non farti troppe domande”.
Parliamo di Pagina99: il quotidiano è durato trentacinque giorni per lasciare poi spazio all’edizione più voluminosa del weekend che resta in edicola l’intera settimana. Che cosa è mancato al quotidiano per affermarsi? Una strategia comunicativa e promozionale adeguata?
Sapevamo che era da pazzi pensare di affermarsi con un quotidiano cartaceo che chiudesse alle sette di sera in questo momento storico. Abbiamo pensato che nel caso peggiore – quello verificatosi – il quotidiano avrebbe fatto da traino, da cavallo di Troia dentro le edicole per il settimanale, il vero investimento dell’intero progetto Pagina99. Il settimanale è fatto molto bene, con ottime firme e soprattutto un’ottima scelta dei contenuti. Il suo maggior pregio è riuscire a vedere da un’angolazione mai scontata i fatti di cui parlano gli altri, oppure aprire ogni settimana con due o tre inchieste originali. L’inchiesta su Eataly, i primi in Italia a parlare di Piketty, inchieste sulla spesa in armamenti e molte altre.
Visto il tuo passato al manifesto riusciresti a definire Pagina99 una testata militante?
Dipende da quanto stiracchiamo il concetto di militanza: al manifesto c’era un adesione ideologica molto precisa, non a caso c’è scritto “quotidiano comunista”, che può essere anche una scelta anacronistica ma quanto meno è una netta presa di posizione sul mondo.
Poi esiste quella che definirei una “militanza dell’intelligenza” senza necessariamente aderire in toto ad un timbro ideologico. Per inciso io non credo affatto che l’ideologia sia superata o un retaggio troppo ingombrante del Novecento, e chi dice questo mi sta sui coglioni, tuttavia a Pagina99 il collettivo non può essere facilmente incasellato. Quindi se allarghiamo il concetto di militanza posso rispondere affermativamente, ma se lo stringiamo, com’è giusto fare, la risposta è no. Altrimenti tutto ciò che ci piace si trasforma in “militante” e a quel punto anche il gelato è militante.
Cos’è l’imparzialità per un giornalista?
L’imparzialità è una puttanata.
In un’intervista rilasciata a Repubblica hai dichiarato: “La satira politica non cambia da Aristofane, è un giudizio in forma di risata. Ciò che cambia è la sua relazione con il potere”. Nell’Italia degli editti bulgari, dei Luttazzi, dei Guzzanti, dei Rossi – e in passato anche dei Grillo – qual è la relazione della satira con il potere politico?
Ciò che intendevo dire è che le modalità della satira sono le stesse da duemila anni: ci sono degli stilemi immortali come il paradosso, la caricatura, il rovesciamento della realtà. Sono figure retoriche che l’autore satirico prende e applica di continuo nel proprio lavoro.
Ciò che è complesso e che rappresenta la missione della satira è la “lontananza”: se tu sei nel centro di Parigi, la città non la vedi; su google maps invece Parigi la vedi nella sua interezza. Quindi la satira per cogliere l’assurdo che c’è nella realtà, il ridicolo, il nonsense, deve stare in alto a una distanza di sicurezza dal proprio oggetto.
Questo può essere un atteggiamento arrogante perché noi siamo in tre in una stanzetta a dare dello stronzo al mondo, però è l’unico modo per farla nobilmente.
Il vignettista che regala la vignetta al politico satirizzato non lo posso sopportare, quella è intelligenza con il nemico, è complicità.
A Cuore eravamo sette pazzi in una redazione, prendevamo per il culo il mondo e dietro questo atteggiamento esisteva anche la brutta abitudine a considerarsi i “buoni e intelligenti” contro i “cattivi e stupidi” dall’altra parte della barricata. Solo così la puoi fare.
In Italia il problema vero è che la satira è stata espulsa dalla televisione, a parte Crozza non mi viene in mente nulla.
Comunque meno feroce di quello che faceva un Luttazzi a Satyricon?
Ognuno ha le sue particolarità: Crozza fa più spettacolo ma ti assicuro che chi si deve incazzare s’incazza.
Il problema della satira è che gli spazi di libertà una volta conquistati non sono per sempre. Si restringono o si ampliano nelle varie epoche; personalmente credo che in questo momento si stiano restringendo, non solo per la satira ma per tutto ciò che esula minimamente dal pensiero dominante, la solita fuffa ideologica da anni: mercato, liberismo, concorrenza, meritocrazia.
Eppure la nostra epoca viene spesso accostata alla fine della Prima Repubblica: crisi del sistema dei partiti, scandali giudiziari, crollo delle ideologie. Nel ’92 il mondo della comunicazione rispose con nuovi linguaggi: Cuore su tutti ma anche in televisione emersero nuove realtà, da Chiambretti alla Dandini fino a forme di talk show “rivoluzionarie” per l’epoca. Non potrebbero riproporsi quelle dinamiche?
Chiariamo un punto: di satira ne trovi quanta ne vuoi se possiedi un computer e apri un browser. È una satira diffusa, capillare, cellulare, dal basso, di piccoli collettivi o singole individualità, alcune molto brave. Anche i giornali hanno tutti il loro vignettista, il loro corsivista, anche perché quando chiuse Cuore ci fu una diaspora e ognuno di noi andò a cercare lavoro in più ridenti lidi. Quel linguaggio era stato sdoganato.
Nel ’91 solo noi potevamo intitolare “Siamo d’accordo su tutto basta che non si parli di politica”.
Quando Repubblica una mattina ha aperto con “Belzebù” riferendosi ad Andreotti, noi ci siamo guardati in faccia e i nostri occhi dicevano “Che cazzo ci stiamo fare noi?”.
Il linguaggio che le grandi firme di Cuore avevano inventato era oramai straripato, aveva colonizzato tutto, non solo la satira. Inventarne uno nuovo non è un gioco da ragazzi e le “rivoluzioni” non cadono come i Giubilei con periodicità regolare.
Quindi di motivi per fare satira non si sente certo la mancanza, mentre i linguaggi e gli spazi sono carenti, perché l’editoria è nella condizione peggiore per finanziare nuovi progetti e perché la televisione è fortemente controllata dalla politica. I piccoli spazi che esistono sono delle utilitarie.
Le soluzioni paventate in questi anni per sbloccare l’industria culturale italiana vanno tutte nella stessa direzione: privatizzazione della Rai, abolizione del finanziamento pubblico all’editoria. Tu stesso ti trovi nella condizione di sposare tesi contrarie al tuo pensiero.
Se è per questo sono favorevole anche al finanziamento pubblico ai partiti, nel senso che mi irrita l’idea che la politica la possano fare solo i miliardari. Per l’editoria e per il cinema stesso discorso: uno Stato intelligente tutela e difende la propria industria culturale, come avviene in Francia dove la televisione vive perché esiste un cinema forte.
I contributi all’editoria sono stati dati per anni perché il tetto pubblicitario televisivo è troppo alto, gli inserzionisti si dirigevano in massa verso il piccolo schermo mandando gambe per aria i giornali.
Se lo Stato italiano finanzia con qualche euro all’anno Il mucchio selvaggio sta semplicemente tutelando una realtà interessante. Dopo di che, se arriva il giornale dei coniugi Mastella, che vende venti copie al giorno e si prende una vagonata di denaro, il discorso cambia. Se ogni potentato si fa il proprio giornaletto in via di estinzione e succhia dalla mammella pubblica cifre esorbitanti, diventa difficile difendere il contributo pubblico.
La soluzione è di fioretto o di mannaia?
A casa mia la soluzione sarebbe di fioretto, ma con certi energumeni arroganti funziona meglio la mannaia. Purtroppo i suoi colpi finiscono per ammazzare anche realtà come il manifesto — è dura fornire una risposta esaustiva.
Quella di scrivere su testate che non ricevono il finanziamento pubblico, prima Il Fatto quotidiano e adesso Pagina99, è una scelta etico-professionale?
È una scelta che adesso posso permettermi: scrivere su giornali che al mattino leggerei.
Con Il Fatto quotidiano non sono sempre d’accordo – tutt’altro – però è stato un clamoroso successo editoriale, forse il più imponente degli ultimi quindici anni: non riceve il finanziamento pubblico, vive di sole copie tirate e pubblicità, lanciò la campagna abbonamenti mesi prima di uscire; ad un certo punto devo dire “giù il cappello”. E poi è un giornale plurale, dove puoi trovare la sinistra in diverse forme e declinazioni, i giustizialisti, i grillini, il liberista e molto altro. Se scrivo un mio corsivo si corre il rischio che alla pagina successiva uno sostenga il contrario. Va bene purché ad entrambi venga garantita piena libertà.
Robecchi può permettersi di rifiutare offerte allettanti qualora queste cozzassero con le sue idee. Un giornalista alle prime armi e in cerca di casata deve cedere ai compromessi o essere coerente con se stesso?
Il presupposto è sbagliato: io non faccio il puro giornalista, ma l’opinionista.
Intanto vi diffido dall’ascoltare la verità rivelata dei vecchi che insegnano ai giovani che cazzo fare delle proprie vite. Certamente non è il momento storico in cui mettersi a fare il giornalista equivale a vincere alla lotteria Italia: l’editoria ha ben più di un piede nella fossa.
Il secondo problema è che troppi ragazzi vogliono scrivere il corsivo e questo, mi dispiace, è sbagliato. È l’ultima cosa a cui dovete aspirare: prima trenta righe di cronaca, poi cinquanta basate su cinque lanci di agenzia per la stessa notizia. La cronaca è difficile, scrivere un pezzo che sta in piedi, coerente, con un buon attacco che invogli il lettore a proseguire, che contenga tutte le notizie – questo è il mestiere.
Dopo un bel numero di ore di volo allora si comincia con la recensione, il pezzo di critica, il corsivo. Non si entra a bordo del cavallo bianco dalla porta principale, si entra dal retro e si lavano i piatti, le padelle, il forno e poi si diventa chef.
La responsabilità è anche della mia generazione: a diciannove anni a L’Unità i caporedattori mi mandavano la conferenza stampa dei Carabinieri per l’arresto di due truffatori da quattro soldi. Scrivevo il pezzo e non andava bene, magari dodici volte, fino a quando non avevo imparato.
Tullio Pericoli, un maestro della pittura in Italia, a vent’anni citofonò a Zavattini a Roma per mostrargli i suoi disegni e Zavattini lo incoraggiò a continuare, fornendogli anche dei contatti. Temo che se accadesse oggi, Pericoli verrebbe mandato a cagare in qualità di ragazzino rompicoglioni. Senza fare troppa retorica sull’inchiostro e le rotative, il giornalismo che hanno insegnato a noi era una forma di artigianato, mentre adesso si pensa che basti una laurea in Scienze della comunicazione — nulla di più sbagliato. Tant’è vero che tutti questi scienziati della comunicazione, espulsi dagli atenei con 110 e lode, esplodono non appena gli dai venti righe di cronaca.
L’estate scorsa hai aperto un pezzo con la citazione “La nostalgia non è più quella d’un tempo”. Sei un nostalgico?
La nostalgia non è più quella d’un tempo è il titolo del meraviglioso libro-autobiografia di Simone Signoret.
Nostalgia non è la parola esatta, nel senso che adesso vivo qua e non nei Settanta, quindi me ne farò una ragione. Credo però che spesso ciò che viene contrabbandato per nuovo, novità, innovazione, in realtà puzzi di vecchio marciume più del resto.
Quando sento alcune parole come “ideologia” trattate alla stregua di una bestemmia allora percepisco un’assenza di rispetto che prima esisteva: essere ideologico significa aver ordinato le proprie idee in un sistema filosofico, morale e culturale che ti permette di avere dei punti di riferimento. Non significa invadere la Polonia o ammazzare i kulaki.
Aggiungo che l’assenza di ideologia è ciò che ha portato a considerare alcune lotte odierne di tipo generazionale invece che di classe, come fa Nadia nel romanzo: la generazione dei padri invece è quella che ha mandato a scuola i figli, ha comprato da mangiare, i vestiti, le scarpe fighette quindi smettiamola con le cialtronate.
L’obiettivo di una lotta politica deve essere quello di ricucire e chiudere quella forbice che da trent’anni si apre inesorabilmente, non la guerra fra poveri per accaparrarsi le briciole. Quando vedo i giovanotti alla Leopolda, tutti laureati e con il master a Londra, che dicono “Mio padre mi ha rubato il futuro”, io li prenderei a cazzotti perché il padre è quello che gli ha pagato il master allo stronzetto.
Quindi mi irrito molto a vedere il vecchio propagandato per nuovo.
Anche se a farlo è qualche satirista prestato ad altri mondi?
Certo, senza distinzione di sesso, razza, religione o lingua. I coglioni sono coglioni ovunque.
Francesco Floris
@Frafloris
Foto di Laura Antonella Carli
@LauraACarli
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