Del: 19 Giugno 2014 Di: Giulia Pacchiarini Commenti: 0

Il Teatro Valle di Roma ha recentemente festeggiato i tre anni di occupazione, nata per ridare vita ad una struttura addormentata e pronta alla chiusura. Oggi non solo continua ad avere una programmazione, ma  è diventato simbolo di impegno sociale (come molti altri teatri nella nostra penisola e altrove).
C’è da chiedersi, però, se oltre l’impegno e della protesta — necessità sociali indiscutibili — il teatro in sé, come forma d’arte o di intrattenimento, oggi abbia ancora senso. Gli ingaggi sono pochi, così come gli spettatori, i teatri continuano a chiudere, a trasformarsi in altro…quindi razionalmente la risposta a questo interrogativo dovrebbe essere negativa.
Tuttavia, nella storia del teatro sono state poche le cause e le motivazioni con una fonte ragionevole alle spalle: scegliere di recitare, dirigere, prestare attenzioni alle luci, alle scenografie, a costumi e maschere non ha mai dato né ricevuto certezze — in compenso, ha sempre suscitato un grande fascino.
A tutto questo reagiscono quelli che ancora oggi decidono di iscriversi a una scuola di teatro, ad un’accademia o a corsi di questa natura.

Fra le alternative che il panorama milanese propone, una delle più affermate è la compagnia e scuola teatrale Quelli di Grock, nata nel 1974 da un nucleo di ex allievi del Piccolo — Maurizio Nichetti, Osvaldo Salvi, Giorgio Gero Caldarelli e Jolanda Cappi — ed ispirata al clown svizzero Charles Adrien Wettach, noto come Grock.
La compagnia oggi è diretta da Valeria Cavalli, Claudio Intropido e Susanna Baccari e legata al Teatro Leonardo, acquisito nel 2009 ed assunto a vero e proprio luogo di espressione per gli attori di Grock e le compagnie ospitate nel corso degli anni.

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=fWAWWBHCAm8[/youtube]

Situata in via Emanuele Muzio, la scuola propone offerte formative diverse, dai corsi per i più giovani ai workshop aperti ai professionisti, al quadriennio professionalizzante. Quest’ultimo in particolare, coinvolge ogni anno circa 130 nuovi aspiranti attori che, a differenza di molte altre accademie, non vengono sottoposti ad alcun provino iniziale, né viene preclusa loro la frequenza di qualsivoglia facoltà universitaria, ulteriori accademie o impieghi lavorativi paralleli. I neoallievi vengono immediatamente suddivisi in quattro classi, ognuna diretta da un diverso insegnante: l’idea è offrire una linea di formazione unitaria ma dalle sfumature differenti, a seconda delle inclinazioni e dell’esperienza dell’insegnante. Vi è chi ha la mano più severa, chi tratta gli allievi come figli, chi si occupa più dell’arte, chi della tecnica, chi della voce. Sin dal primo anno però il lavoro è evidentemente indirizzato alla presa di coscienza del proprio corpo e degli spazi, con movimenti tipici che gli allievi condividono — come “La scivolata alla Grock” o “Le corse sui muri”, tratti che da sempre caratterizzano la preparazione e l’espressione degli attori di Grock, grazie anche alle radici della compagnia, legate al mimo e alla clowneria.

Le lezioni del primo anno richiedono 4 ore a settimana, ma in realtà si duplicano se vengono sommate quelle di esercizio individuale o di gruppo. Generalmente si basano su improvvisazione, ricerca del personaggio e tecniche di teatro gestuale, poi espresse nelle prove aperte di metà anno e nei primi mesi estivi durante il saggio finale, portato in scena al Teatro Leonardo.
Solo in seguito avvengono le prime selezioni, che permettono a quarantacinque studenti di accedere al secondo anno. Questi vengono valutati tramite un monologo d’autore a scelta, di circa tre minuti, oltre che tenendo conto delle considerazioni formulate dagli insegnati durante l’anno di frequenza.

quelli di grock PicMonkey Collage

I quarantacinque ammessi al secondo anno sono di nuovo ripartiti in quattro classi, in modo che cambino compagni di scena e insegnanti, perché non si abituino ad un metodo unico e sviluppino complicità e relazioni con più personalità. Insieme affrontano un percorso più specifico; l’impegno richiesto, anche in termini di tempo donato alle lezioni (sei ore), alle prove, agli esercizi, aumenta in modo esponenziale. Inoltre cresce il lavoro sul personaggio, accompagnato da un primo approccio con il monologo, lo studio delle scene, l’analisi del testo e le lezioni interdisciplinari di danza contemporanea.
Parallelamente gli allievi vengono invitati a sviluppare una capacità critica, un’autonomia nelle scelte, nella preparazione di sé e dei propri personaggi, sono spinti a diventare registi di se stessi.
Anche il secondo anno porta gli allievi alla produzione di una prova aperta di 10-15 minuti e ad un saggio finale con due giornate di repliche. Spesso gli insegnanti chiedono di proporre una sceneggiatura, un autore, un tema — facendo sì che il proprio ruolo passi da docente a maestro, perché le capacità di ogni allievo possano prendere piede.

Il passaggio al terzo anno è di nuovo sbarrato da un provino composto da un monologo di tre minuti e da un dialogo di cinque, con la possibilità che gli insegnanti richiedano un’improvvisazione corporale su musica.
I selezionati per il terzo anno sono ventotto, divisi in due gruppi per i quali la struttura di via Emanuele Muzio smette di essere scuola per diventare accademia e casa. I compagni si fanno un po’ fratelli, un po’ rivali; il fascino del teatro si concretizza in atti, tecniche, voci; la passione per il palcoscenico viene ricambiata o rovinosamente delusa.

È l’anno del giudizio, di sé e degli altri, dove pochi sono ancora lì per gioco e si fatica ad immaginare una vita lontana da quella.

L’anno è suddiviso in 3 unità dall’ordine inverso per i due diversi gruppi, di cui una di teatro danza il cui risultato è messo in luce nella prova aperta di metà anno. Le altre due metà invece si concludono con uno spettacolo in più repliche, aperto al pubblico, realizzato all’interno di una delle aule della scuola.
Una di queste due parti dell’anno coincide con l’approfondimento della figura dell’autore e l’approccio ad una sceneggiatura, analizzata nei suoi dettagli più sottili e indiscreti.
L’ultima suddivisione, invece, prevede la scoperta dell’autore: si tratta di un periodo in cui gli allievi si cimentano nella scrittura del testo che porteranno in scena e nell’ideazione di costumi, scenografia, personaggi e musiche. La presenza degli insegnanti diviene sempre più limitata, aumentano le ore che gli allievi trascorrono in autogestione e gli effetti di questo lavoro alla pari fanno parte del progetto finale.

Ad ottobre gli allievi vengono sottoposti alla selezione per il quarto e ultimo anno, in cui la classe è unica e composta da soli sei allievi, che frequenteranno gratuitamente le lezioni e alla fine del percorso riceveranno un diploma dal peso non indifferente. A quest’ultima selezione gli studenti si devono presentare con un monologo di dieci minuti scritto e allestito di proprio pugno, ispirato ogni anno ad un autore diverso, rivelato nei primi giorni di luglio. Dovranno inoltre preparare una scena con un minimo di tre personaggi, scenografia, musiche e costumi.

Non è più solo l’attore ad essere valutato, ma anche l’autore, il regista, tutto ciò in cui l’allievo si è trasformato dopo tre anni di apprendistato e tutto il potenziale che dimostra di avere.

L’ultimo anno è incentrato, oltre che sull’approfondimento delle materie apprese in precedenza, sulla creazione di un progetto teatrale da inserire nel calendario di spettacoli del Teatro Leonardo dell’anno successivo.
Si tratta di uno spettacolo completamente realizzato ed allestito dai sei allievi, dalla sceneggiatura alle luci.
Ciò che la scuola si propone è creare attori che siano pronti al lavoro dell’attore teatrale, che non dà soddisfazioni immediate (e a volte non e dà proprio), per cui si vivono giornate consegnando curriculum o lavorando in un negozietto, in attesa di una qualsiasi chiamata. In cui si fanno pubblicità e workshop, una comparsata, un ruolo importante, si ottengono premi e critiche.
Vero e proprio simbolo di precariato, già dalla sua origine ma ora più che mai.
Eppure, quella passione, quel brivido che coglie nel momento in cui si esce dalle quinte, non esiste altrove. Il banco di prova è proprio il palcoscenico, dove l’attore prova a trasmettere un poco di tutta quell’emozione allo spettatore.

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=YzOYvSPYkgc[/youtube]

Non si tratta di un percorso semplice, alcuni abbandonano alle soglie del primo anno, altri smettono di frequentare più in là o non si presentano alle selezioni.
Il tempo, l’impegno, la passione, l’assenza di prudenza o paura richiesti portano a rinunciare a molto e a sentire il peso della rinuncia solo più in là — quando l’adrenalina scende e la quotidianità diviene quella di chiunque altro, di chi non sa cosa sia il teatro o quel modo di fare teatro.

Forse è questa la vera difficoltà: tornare poi alla propria vita di sempre. Infatti molti non ci tornano, almeno non totalmente; tentano invece  di unire le cose o decidono di seguire solo il teatro — così che il teatro non esca più dalla loro vita ma diventi, come ripetono spesso gli insegnanti di Grock, una proposta di come il mondo dovrebbe essere.

Giulia Pacchiarini
@GiuliaAlice1

Giulia Pacchiarini
Ragazza. Frutto di scelte scolastiche poco azzeccate e tempo libero ben impiegato ascoltando persone a bordo di mezzi di trasporto alternativi.

Commenta