Non parleremo di quello che è successo l’altra notte sul parquet dell’AT&T Center Arena di San Antonio, Texas: della vittoria dei texani nelle Nba finals 2014 ― la quinta nella storia della franchigia, tutte conquistate dopo il 1999 ― contro i titani del Miami Heat.
Una serie finale senza storia, 4-1 secco con due vittorie consecutive degli Spurs all’American Airlines Arena di Miami, parziali imbarazzanti che non si vedevano dal 2007, quando sempre San Antonio lisciò il pelo ai Cleveland Cavs di un certo James, che non era ancora chiamato da tutti LeBron.
Non parleremo dell’organizzazione in campo, delle rotazioni difensive, del collettivo che per una buona volta asfalta il mito americano dell’uomo solo al comando.
Non parleremo di rivincita, ma di vendetta.
La vendetta di Tim Duncan, il gigante buono di 211cm, al quale ancora bruciavano le mani e le nocche, dopo aver sbagliato in gara7 dell’anno scorso l’appoggio decisivo al tabellone ― sempre contro gli Heat.
Alla sirena del “deponete le armi” mancavano 44 secondi che lo avrebbero incoronato re: un appoggio semplice per i suoi standard di macchina da punti, ma non quella sera ― il fato spazzò via dal canestro ogni speranza, regalando ancora una volta copertine e rotocalchi ai faccioni da Die Hard di Wade, James, Allen e Bosh.
La vendetta di Tony Parker contro la natura che gli ha fornito un fisico inadatto per fare a botte coi ciclopi e in cambio gli ha donato piedi rapidi, mani da borseggiatore della banlieue parigina e il coraggio di un Ettore in battaglia, per buttarsi in mezzo alla mischia, prendere gomitate e tornare in posto1 con un ghigno beffardo dipinto sulle labbra.
La vendetta di Manu Ginóbili da Bahía Blanca, Argentina, un giocatore che non si può non amare anche quando lo si odia a morte, dotato di un’intelligenza cestistica einsteiniana mixata con le ginocchia di una rana, che alla veneranda età di trentasei anni trova ancora la forza di volare al ferro contro la gravità e le braccia di chi è troppo più grosso e troppo più giovane.
Nel dopo gara, le parole di Marco Belinelli ― primo italiano nella storia a poter indossare l’agognato anello ― profumano di una dolce malinconia alla quale è difficile rimanere indifferenti.
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Erano due anni che qualcosa vibrava nell’aria per il talento di San Giovanni in Persiceto: prima la chiamata dei Bulls, squadra alla quale è legato l’intero immaginario del basket internazionale; poi i canestri decisivi contro i Boston Celtics in regular season e i Brooklyn Nets nei playoffs 2013; la chiamata di coach Popovich a San Antonio, con un inizio di stagione meraviglioso e medie di realizzazione fuori dall’arco una spanna sopra tutti; infine, l’affermazione definitiva, con la vittoria nella gara delle “bombe da tre” all’All Star Game 2014.
Il suo volto, rimasto sempre uguale a se stesso, era in attesa di poter esplodere per l’unica vera vittoria che valesse la pena inseguire.
L’altra notte, a sette fusi orari dal nostro, il giornalista di Sky, Alessandro Mamoli, pone la più classica delle domande innocue ― dediche e ringraziamenti, il pane quotidiano dello sportivo vincente — abituato come in uno sceneggiato di pessima qualità a recitare sempre la medesima parte. Eppure qualcosa si rompe nella sceneggiatura: Marco ci prova ad interpretare il ruolo di superstar, cita la famiglia come è normale che sia, si mette a posto il cappellino, sguardo perso nel vuoto da cane bastonato, gli occhi si gonfiano come mongolfiere, si tocca il naso e la fronte nel tentativo, fallimentare, di trattenere le lacrime.
«Sono sempre stati… Hanno sempre creduto in me… Nessuno, nessuno ha mai creduto in me in questi anni…. E alla fine ho vinto».
Sono frasi disconnesse: la voce si fa infantile, spezzata dal pianto di un bambinone della provincia bolognese troppo cresciuto, con quella barba folta a fare da contraltare alle lacrime che ora scendono copiosamente.
Ma non c’è vera rabbia nelle parole di Belinelli, piuttosto sincerità ― di quella sincerità imbarazzante che non siamo più abituati a riconoscere, a sopportare e che dunque ci spiazza, in un alternarsi umorale di empatia e repulsione.
Il giornalista ci prova ancora (è il suo mestiere, come biasimarlo) e Marco tenta di ricomporsi per un breve istante: ringrazia gli amici e «San Giovanni che ha aperto la bocciofila per guardarmi fino ad adesso».
Se un uomo che è appena stato dichiarato “campione del mondo” riesce a pensare alla bocciofila di San Giovanni, forse non tutto è perduto.
Le lacrime dei campioni sportivi hanno sempre qualcosa di malato; sono come gocce acide che non dovrebbero abbattersi al suolo per non scalfirlo.
Con i loro stipendi da schiaffo in faccia alla realtà, con la loro fama, le loro fastidiose avventure sentimentali, con tutto questo, le emozioni non gli andrebbero perdonate.
Eppure l’altra notte sulla faccia di Belinelli c’era qualcosa di troppo umano per incazzarsi e non perdonare.
Francesco Floris
@Frafloris