Non è la prima volta che l’Unità scompare dalle edicole. Per ironia della sorte, il fallimento attuale cade quasi esattamente nel quattordicesimo anniversario del suo immediato precedente, il 28 luglio 2000, quando la pubblicazione cartacea (e nel giro di un mese anche quella digitale) fu interrotta. Era il culmine di un triennio difficile, cominciato nel 1997 con la transizione dalla gestione dei DS alla parziale “privatizzazione”, cui seguirono un drammatico crollo delle copie vendute e un forte indebitamento.
Il quotidiano che chiude i battenti oggi era nato qualche mese dopo quel fallimento, a gennaio 2001, quando la testata fu rilevata e rilanciata—sotto la direzione di Furio Colombo—dalla Nuova Iniziativa Editoriale S.p.a.
Ma le varie gestioni che da allora si sono alternate non sono mai riuscite a rilanciare per davvero il giornale, che ha continuato a perdere lettori e accumulare debiti.
Oggi come allora, mentre l’ultimo numero è in vendita, sulla stampa e sui social network fioccano le dichiarazioni di solidarietà e di rammarico per la chiusura di una testata che tanto peso ha avuto nella storia politica e culturale del nostro paese. Ma scarseggia l’autocritica, in primis da parte dell’editore, che tace, da parte del PD, che se ne lava le mani, e infine da parte dell’attuale direzione e dei redattori, che per il momento si limitano a recriminare (“Hanno ucciso l’Unità”). Potremmo aggiungere all’elenco anche i vari direttori che si sono succeduti alla guida del giornale negli scorsi quattordici anni, e che oggi scrivono tutti altrove, da Furio Colombo ad Antonio Padellaro a Concita De Gregorio.

Eppure 35 milioni di debito non possono essere spuntati dal nulla, né si possono facilmente scaricare le responsabilità dell’emorragia dei lettori che ha portato il giornale dallo storico milione di copie degli anni d’oro (quelli di Berlinguer) ad una tiratura di circa 60.000 copie, con un’effettiva diffusione di poco più di 20.000, negli ultimi anni.
L’Unità sconta certamente il prezzo di una crisi che investe il mondo dell’editoria nel suo complesso, e che inevitabilmente colpisce con più forza i pesci più piccoli, ma riflette anche, come giustamente nota Alessandro Nanni su Pagina99.it, la crisi dei partiti di massa e l’evoluzione del loro rapporto con gli elettori. Il sottotitolo voluto da Gramsci recitava “giornale degli operai e dei contadini”; poi si è passati a “giornale del Partito Comunista Italiano”; per finire—sotto la direzione D’Alema—al più neutro “giornale fondato da Antonio Gramsci”. Questo graduale slittamento non è privo di significato, anzi rappresenta perfettamente la crisi identitaria di un quotidiano che si è ritrovato ad essere il foglio semi-ufficiale di un partito ormai lontanissimo dalla propria storica identità di classe, privo di riferimenti politici e ideologici forti (quelli che, pure tra mille difficoltà, tengono ancora in vita un giornale come Il manifesto), essenzialmente sovrapposto, da questo punto di vista, ad altre testate della medesima area, come La Repubblica ed Europa—l’insipido quotidiano che ora fa da organo ufficiale del PD.
Insomma le ragioni del fallimento derivano innanzitutto dall’incapacità di affrontare questo grande cambiamento storico e politico. Incapacità a cui si affianca una gestione finanziaria quantomeno poco oculata, già inaugurata dai DS negli anni ’90 (110 milioni del debito accumulato nel 2000 ancora pesano sulle spalle dello Stato, denuncia il Corriere della Sera) ed evidentemente proseguita dai nuovi editori. Serve a poco, poi, lamentare una non meglio precisata capacità di adattamento alla nuova realtà digitale dell’informazione—curiosamente fu proprio l’Unità il primo giornale italiano a lanciare un proprio sito web, nel lontano 1995.
È difficile dire quale sarà ora il futuro del giornale, se mai ce ne sarà uno.
Le reazioni del PD—che ne detiene oggi solo una quota minoritaria—sono state fredde e contraddittorie. Eppure poco tempo fa lo stesso Renzi aveva prospettato un rilancio d’immagine del quotidiano, resuscitando le famose Feste dell’Unità, quasi a voler rinsaldare un rapporto più stretto tra il giornale e il partito. Rapporto che, a giudicare dalle dichiarazioni di queste ore del segretario e dei suoi immediati collaboratori, non si riesce a definire con precisione: prima si afferma che l’Unità non è nelle disponibilità del PD (altrimenti non sarebbe fallita—chissà con quali mirabolanti iniziative editoriali), poi si ribadisce la ferma volontà del partito stesso di riaprirla. Vedremo.
Sicuramente la scomparsa di una voce di questo peso non segna una bella giornata per l’informazione e la stampa italiane. Tuttavia bisogna anche avere il coraggio di chiedersi se abbia senso mantenere in vita un quotidiano, a mo’ di accanimento terapeutico, solo per il nome, carico di storia, che porta. Oggi non c’è commento che non sottolinei i 90 anni del giornale (appena festeggiati), la clandestinità sotto il fascismo, la grandezza del suo fondatore, ma forse sarebbe meglio accettare che l’Unità di oggi non è più l’Unità di Antonio Gramsci, né l’Unità del PCI di Berlinguer. E proprio in ossequio a un passato così glorioso, di fronte alla manifesta e recidiva incapacità di chi l’ha gestito negli ultimi vent’anni, il fallimento è quasi da preferire all’agonia e all’insignificanza. Per non parlare della possibilità di un destino ancora peggiore, come quello cui è andato incontro un altro giornale storico del XX secolo, l’Avanti!.
Nella speranza, ovviamente, che arrivino giorni migliori e persone capaci di raccogliere nuovamente la sua eredità.
@se_ba_stian
Foto CC BY-NC-ND Paolo Arosio