È uscito in mattinata, sulla versione online del quotidiano Europa, un articolo-opinione di Fabrizio Rondolino, che prende spunto dal tema più scottante – almeno a livello emotivo – della “recente” escalation di violenza nel conflitto israelo-palestinese.
Il titolo del pezzo, che in poche parole riassume la tesi portante dell’articolo, è Basta con quei bambini usati contro Israele.
Rondolino sostiene l’ipotesi di una stampa occidentale schiacciata sulle posizioni di Hamas, a detta del giornalista organizzazione terroristica che sfrutta cinicamente i morti del proprio popolo, in particolare infanti, per sollevare le romantiche coscienze dei terzomondisti nel grande bacino dell’opinione pubblica internazionale, sfruttando così a proprio vantaggio questo rinnovato clima.
A dimostrazione di ciò, viene citata l’abusata retorica dei morti in giovane fascia d’età, prassi giornalistica che, purtroppo per Rondolino, non viene applicata al solo conflitto mediorientale ma generalmente estesa a tutti gli “incidenti” e le stragi che vedono coinvolte un numero elevato di persone — si tratti di uno scontro fra civiltà, o del più “banale” deragliamento di un treno nei pressi di Viareggio.
Peraltro, che in un contesto bellico le parti in causa utilizzino immagini “propagandistiche” della sofferenza o delle violenze nemiche — e nulla è più “toccante” del dolore di un bambino — è assolutamente fisiologico, oltre che comprovato dalla storia dei conflitti recenti (si pensi solo al caso esplicativo delle bare militari statunitensi al ritorno dal Vietnam, riprese dalle televisioni con insistenza ossessiva, ma si potrebbero portare una miriade di esempi che per ragioni di sintesi tralasciamo).
Cade dunque nel vuoto l’ipotesi di uno sfruttamento delle vittime palestinesi da parte di Hamas, ipotesi condita da una strana salsa complottista, per la quale saremmo tutti schiavi e burattini dell’organizzazione armata palestinese, che con le sue lunghe braccia da regista occulto muove i media occidentali e i nostri cuori a proprio piacimento (escluso il cuore di Rondolino s’intende, vero paladino del razionalismo accattone); cade nel vuoto per la semplice ragione che questo è ciò che avviene nelle guerre: lo fa Hamas quando denuncia le vittime dei raid israeliani, e lo fa Israele quando denuncia la “tempesta di razzi” sulle proprie città, con le celebrazioni dei propri figli caduti in guerra, o quando un giornalista che dichiaratamente parteggia per uno dei due schieramenti scrive – e cito testualmente – : «Ogni volta che Israele è stato costretto a prendere le armi e a versare il sangue dei suoi figli, è perché ha subito un attacco mortale. Questa guerra non è diversa: Hamas, attraverso i tunnel e con i razzi, ha colpito e colpisce Israele, e Israele non ha altra scelta che difendersi».
Altra tesi portata avanti da Rondolino nelle battute iniziali dell’articolo è quella per cui non c’è particolarmente da scandalizzarsi o impiccarsi con bandiere delle pace se in una guerra muoiono anche bambini. Il giornalista scrive:
«Smettiamola con i bambini: i bambini in guerra muoiono come chiunque altro, perché la guerra è orrenda. Sono morti e muoiono dappertutto, i bambini: a Belgrado e in Kosovo, in Iraq e in Siria e ovunque si combatta una guerra. Ne sono morti molti anche a Dresda, sotto i bombardamenti alleati che hanno piegato Hitler, e a Hiroshima e Nagasaki, dove le atomiche americane hanno portato la pace nel Pacifico. Dunque il problema non è se muoiono i bambini, ma se è giusta la guerra».
A parte il fatto che un sopruso rimane tale a prescindere dal numero di volte in cui si ripete — a meno di non voler cedere a forme rapsodiche di relativismo etico con sistema maggioritario, per il quale una volta superato un certo quorum di violenze sui bambini nella storia, queste vanno accettate come “naturali”, se non addirittura “inevitabili” — la riflessione di Rondolino, ammantata da un certo realismo cinico, in realtà nasconde un grossolano errore storico e interpretativo: come si possa comparare i bombardamenti a tappeto della Seconda Guerra Mondiale nel 1944-45 su Dresda o Roma con le cosiddette “operazioni mirate” dello scontro in atto, rimane un mistero. Dopo decenni spesi a sproloquiare di tecnologie militari “intelligenti”, droni e quant’altro, che avrebbero alleviato le sofferenze dei civili per macchiare di sangue le sole divise degli eserciti regolari – in una sorta di postmoderno remake della vicenda Orazi e Curiazi – veniamo a scoprire che non è servito a un beneamato cazzo investire i miliardi dei ministeri della difesa nella ricerca bellica, perché tanto “i bambini in guerra muoiono”.
I giornalisti che si travestono da storici suscitano sempre una certa pietà e comprensione, soprattutto quando Rondolino condisce il suo dolce pensiero da stilnovista della geopolitica con sparate come quella sulle “atomiche americane che hanno portato la pace nel Pacifico”. Forse a sessantanove anni di distanza si potrebbe anche riconoscere, almeno per onestà intellettuale, come i due attacchi nucleari su Hiroshima e Nagasaki non servissero affatto a concludere una guerra che già emetteva gli ultimi vagiti, o a piegare un impero – quello giapponese – con l’acqua alla gola, le spalle al muro e che dava fondo alle sue ultime munizioni, ma piuttosto a lanciare un chiaro messaggio di onnipotenza al resto del mondo, in particolare ad alcune forze alleate che di lì a poco avrebbero ricoperto il ruolo del nemico oltre il filo spinato.
Tralasciamo la sterile polemica, sintomatica di un evergreen della filosofia rondoliniana, sui presunti antisemiti filo-terroristi e filo-Hamas che imperversano in Italia e che condiscono la sua quotidianità di social media manager: l’accusa di antisemitismo riservata a chiunque si permetta docilmente o aspramente di criticare l’operato degli esecutivi israeliani – presenti e passati – fa francamente esplodere qualunque riflessione in una sonora e grassa risata che dice più di mille parole.
Andiamo dritti al nocciolo della questione. Rondolino scrive: «Israele non è spietato. Non è neanche guerrafondaio: non lo è mai stato. Tutte le guerre che Israele ha dovuto combattere dal 15 maggio 1948, cioè dal giorno della sua nascita, sono state e sono guerre di difesa».
Qui si esce dal campo dell’opinabile, delle interpretazioni cialtrone che di grazia sono garantite dell’articolo 21 della Costituzione — almeno fino a quando un pensiero e una parola, degni di questo nome, avremo; si entra nel campo dei fatti, quei pochi che nel magma complesso della guerra pluridecennale in Palestina è possibile isolare — una complessità che ipotizziamo fatichi a entrare non tanto in un editoriale del giornalista torinese, quanto in un suo collegamento sinaptico, inderogabilmente sintonizzato sulla frequenza “nemici filo-terroristi” che portano avanti “l’offensiva fondamentalista islamica che da Mosul a Gaza ha come obiettivo i valori e le libertà dell’Occidente”.
Dal 14 maggio 1948 (ma i primi scontri risalgono all’anno precedente), le guerre israeliane contro potenze arabe che non riconoscevano la neonata nazione sono state sia di carattere difensivo, che di carattere offensivo: nel 1956 truppe israeliane occuparono la striscia di Gaza, preoccupate dal riarmo egiziano; nel 1967 venne scagliato un attacco preventivo — ai confini israeliani si stavano radunando contingenti militari siriani, giordani ed egiziani — che portò all’annessione territoriale del Sinai, della Cisgiordania, di Gerusalemme est e delle Alture del Golan, in barba ai confini determinati e stabiliti dalle Nazioni Unite vent’anni prima.
Per non parlare delle curiose ambiguità linguistiche vedi alla voce risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, redatta diversamente nelle due lingue ufficiali dell’Onu (inglese e francese), o delle violazioni conclamate del diritto internazionale, come gli insediamenti dei coloni israeliani oltre i confini stabiliti, che ogni qual volta vengono poste all’attenzione degli organismi internazionali di vigilanza trapassano regolarmente a miglior vita sotto la mannaia del veto statunitense in Consiglio di Sicurezza.
Bastano queste quattro considerazioni – le più note, peraltro – a smontare in piccoli pezzetti maciullati la libera opinione del Rondolino, per il quale “le guerre israeliane sono sempre state solo guerre difensive”.
Urge ricordare che qualunque considerazione sul conflitto israelo-palestinese che non parta dall’analisi —superficiale nella peggiore delle ipotesi, o approfondita nella migliore — degli eventi che hanno scandito la vicenda mediorientale dal ’48 a oggi, andrebbe cestinata in men che non si dica.
L’analisi storica che sostiene “il problema è oggi, scurdammoce u passato” e l’azione politica che ne deriva in realtà non vogliono modificare l’esistente: l’esistente non è comparso come per magia dal nulla, ma è il figlio legittimo delle decisioni prese nel ’48, nel ’56, nel ’67, nel ’73 e via dicendo.
Non fare i conti con la soluzione avventata del biennio ’48-’49, quando una nazione venne stabilita a tavolino da fantasiosi cartografi creativi, con modalità da Congresso di Vienna, significa non voler guardare negli occhi le conseguenze di quella scelta, condizionata dalla necessità di risarcire un popolo – quello ebraico – vessato dalle schifezze e dagli orrori del nazismo e del fascismo.
Purtroppo anche le migliori intenzioni, ammesso che ci fossero, fanno a cazzotti con quel distacco realista che si domanda e si pretende dalla politica; e chi non è in grado oggi di guardare criticamente ai tempi e ai modi con cui è stato generato lo Stato d’Israele, non ha diritto di cittadinanza in un dibattito sì aspro, ma sensato. Va solo relegato all’oblio, che talvolta conduce sugli impervi sentieri del cattivo gusto necrofilo — e i riferimenti all’autore dell’articolo di Europa non sono affatto casuali.
Per carità, è legittimo avere delle opinioni indegne che non corrispondano minimamente a quel target di storiografia da Wikipedia generalmente richiesta ai maturandi liceali — basta solo esserne consapevoli, assumersene la responsabilità.