Del: 1 Luglio 2014 Di: Alessandro Massone Commenti: 0

Nelle pieghe della ben giustificata isteria scatenata dalla rivelazione della sorveglianza di massa operata dalla NSA troppo spesso si trova annidata, soprattutto nei pezzi di giornalisti statunitensi, della terribile retorica dal tanfo pro–corporatization da far venire il mal di testa e impedire sonni tranquilli.
Poco importa che il regime spionistico mondiale sia reso possibile proprio dal private sector, lo spin dei comunicatori vicini alla Silicon Valley rimane lo stesso: Stato cattivo, multinazionali buone.
La speranza che nessuna testata potesse mangiarsi un tale shit sandwich si è rivelata ingenua, e Facebook e Google sono usciti dallo scandalo relativamente incolumi. Forse il pubblico generale è vagamente piú attento a cosa condivide online, ma di certo l’opinione pubblica non ha espresso un ritrovato bisogno per la privacy.
Nel mezzo dello scandalo che ha travolto l’amministrazione Obama, anche chi meno ha partecipato allo spin delle grandi della Silicon Valley, è colpevole di non aver ricordato a pubblico e lettori quanto immatura si sia troppe volte dimostrata la leadership di queste società1.

Zuckerberg

Con l’uscita di Experimental evidence of massive-scale emotional contagion through social networks sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences abbiamo per la prima volta una pistola fumante fra le prove: sono queste le conseguenze di aver lasciato nelle mani di bambini troppo cresciuti una parte così fondamentale delle nostre vite.
Il documento descrive i risultati di un esperimento tenutosi su 689mila utenti durante una settimana del 2012. Lo scopo? Dimostrare se i sentimenti positivi o negativi fossero contagiosi online quanto nella realtà.
La risposta, ovviamente, è stata sì, certo. I sentimenti sono contagiosi, ovunque.
Il dubbio è intellettualmente impegnativo quanto quelle domande che da secoli accompagnano l’umanità, come: delle feci lucidate, sono sempre feci?

L’esperimento si è svolto modificando artificialmente quali post venissero visualizzati nel News Feed degli utenti, aumentando i post “negativi” e “positivi” e osservando come ne fosse influenzato il linguaggio dei post successivi della cavia.

La follia dello studio è tale da rendere la situazione tragicomica. Kramera, Guilloryb, e Hancock hanno mai letto un libro? Un articolo? Un pamphlet? È questa la loro profonda scoperta scientifica? Che il testo scritto può influire sui propri sentimenti?

Le difese al social network sono state molteplici. Qualcuno sottolinea sia sufficiente considerare il News feed come un posto. È un’analisi parziale e gravemente fallace, ignorante di come per una fetta consistente degli utenti di internet, oggi, Facebook sia il mondo, non un posto. Facebook è per molti la totalità delle proprie interazioni con internet, e delle proprie interazioni con i propri cari, su internet. Non è Disneyland, è la Florida. È vero che sempre piú spesso attraversiamo ambienti artificiali costruiti per rubare la nostra attenzione e influenzare i nostri sentimenti — qualsiasi negozio di catena è così strutturato, ma anche la disposizione dei negozi nei centri storici non è piú casuale da anni. Il News feed, tuttavia, non è un negozio, un parco dei divertimenti, è il mondo digitale — la totalità del mondo digitale, spesso. Un paragone piú appropriato per l’esperimento sarebbero forse enormi schermi disposti per le vie di una metropoli che ripetono in loop messaggi di un dittatore.

Ancora peggiore è la rassegnazione dimostrata da altri.
Cito: “Tutte le persone con cui interagiamo — inclusi tutti i nostri amici, la nostra famiglia, e i nostri colleghi — cerca di manipolarci continuamente in vari modi. (…) Quindi la vera domanda non è se e come la gente cerca di manipolare i nostri sentimenti e il comportamento, ma se stanno cercando di manipolarci per il nostro bene o meno.” È sconvolgente, dopo anni di scandali, dopo dichiarazioni da far accapponare la pelle, come l’atarassia domini ancora completamente l’opinione di tanti commentatori.

Chiunque difenda la posizione di Facebook è vittima della piú incredibile forma di sindrome di Stoccolma mai vista.

La difesa arrivata dai ricercatori e da Facebook è semplice, l’esperimento è legale grazie al consenso dato dagli utenti nell’atto di accettare i Terms of Service in fase di registrazione. È ironico quanto, come il Governo che tanto criticava, Facebook produca fondamentalmente la stessa risposta allo scandalo. Bypassando qualsiasi merito etico, aspetto fondamentale di qualsiasi ricerca scientifica, e appoggiandosi su una legalità priva di valore. Così come lo Stato federale americano decide cosa sia legale o meno per l’NSA, Facebook può modificare il TOS a proprio piacimento, di fatto legalizzando qualsiasi azione sui dati dei propri utenti.
E così non importa che la ricerca abbia violato la Dichiarazione di Helsinki, perché avete premuto “Avanti” una volta di troppo.

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Alessandro Massone
@amassone
  1. Divertente da leggere: prima, e dopo. []
Alessandro Massone
Designer di giorno, blogger di notte, podcaster al crepuscolo.

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