Il Ministro Maria Elena Boschi sarebbe dunque “una gatta morta alla rovescia”, secondo la celebre definizione che ne ha fornito il professor Stefano Zecchi – ordinario di Estetica presso l’Università Statale di Milano – noto al grande pubblico come opinionista televisivo oltre che fiero redattore di pamphlet memorabili come Le promesse della bellezza e L’artista armato (Oscar Mondadori), punti di riferimento intellettuale per le massaie originarie di Voghera e di altre deprimenti lande desolate.
Ci riferiamo all’articolo di commento dal titolo L’ossessione per la Boschi gatta morta alla rovescia comparso nella tarda mattinata di domenica 24 agosto sulla homepage de IlGiornale.it, luogo prediletto del dibattito filosofico nostrano e periodico illuminista che tratta la materia sensibile in presenza/assenza di materia grigia.
Zecchi si lancia in un’elucubrazione alberoniana del reale che è quasi denuncia, descrivendo il movimento dialettico che ha condotto “veline e attricette” ad essere destituite dal trono di regine delle spiagge dalla “nuova fidanzata d’Italia che sta al gioco senza sbotti moralistici”.
Per farlo utilizza nozioni desuete del pensiero critico, quali “civiltà dell’immagine”, “politica come seduzione” e “capacità di comunicare col corpo”, concetti puri e rivoluzionari che mettono in condizioni di esplodere l’attuale sistema di valori, ben esemplificati dal seguente stralcio di prosa fiammeggiante:
Osserviamo la sottile linea rossa che trapassa i decenni, spicca il volo da un’imprecisata “fine del XIX secolo”, epoca di uomini che sussurravano ai cavalli, fa tappa agli NBC Studios nel 1960 e giunge ad affermarsi negli anfratti del Ministero per i Rapporti con il Parlamento, sotto forma di uno spurio incrocio fra la Donna-Angelo e la Femme fatale.
Procediamo con ordine per evitare derive ingiuriose che tanto sarebbero d’uopo in questo contesto. Il professor Zecchi, oltre ad essere il sacro depositario di interpretazioni dei corsi storico-politici che definire soggettive sarebbe un insulto alla soggettività, si arroga il diritto di violare la mente delle altrui persone per svelarne le ipocrisie e i fini ultimi che soggiacciono ad ogni loro frase sospinta: suddivide il mondo femminile in “gatte morte convenzionali” e “gatte morte del politicamente corretto”, con un buon gusto che ricorda quello degli adolescenti dopati di testosterone quando ripartiscono le donne in “troie convenzionali” – coloro che la danno facile – e “troie del politicamente corretto” – coloro che non la danno per paura del primo giudizio qualora la dessero.
Un peccato che a Zecchi non sia assegnata la cattedra di filosofia politica, dove potrebbe sbilanciarsi in giudizi sui liberali come “comunisti del politicamente corretto”, o l’insegnamento della filosofia teoretica, presentando dispense sul non-Essere come “un Essere non convenzionale e un po’ timido”.
Va da sé che l’accademico veneziano prestato part-time all’ateneo milanese non parla solo in linea teorica: pone l’esistenza concreta e l’esperienza del singolo al centro del dibattito, rinvangando davanti ai lettori i fasti di un passato personale da sciupa femmine, ormai sepolto sotto la polvere di una libreria:
C’è da immaginarselo il piccolo studio da topo di biblioteca, al secondo piano del Dipartimento di Filosofia, preso d’assalto da un’orda barbarica di gnocca in calore che s’accalca agli stipiti della porta come gli zombie di Resident Evil: sognano facili 30 e lode le studentesse che indossano abiti succinti mentre fissano ammiccanti il volto sudato dello Zecchi; lui non cede alle becere tentazioni della carne, come Gesù Cristo nel deserto l’accademico respinge le promesse demoniache, dando prova di stoica fede nella “cura di sé”. Ne esce un ritratto degli uffici universitari simile a un bordello parigino della Belle Époque, dove una flebile luce rossa giunge dalla finestra ad illuminare il viso del poeta, solo e nudo in mezzo a fantasmi che gli attanagliano lo stomaco e desideri di onanismo pedofilo che non vogliono abbandonarlo.
L’illazione di Zecchi, per il quale la Boschi si sarebbe “ben allenata, scalando tutte le categorie”, metafora sportivamente addolcita per darle della zoccola da competizione di lunga data, in assenza di prove concrete di cui evidentemente l’esimio Don Giovanni dispone, rimane una super cazzola infamante, utile soltanto a stimolare le fantasie porno-socratiche dentro i club per scambisti dei Lincei.
Sarebbe interessante conoscere in proposito il parere delle massime istituzioni universitarie, a cominciare dal Rettore Gianluca Vago, visto che un suo sottoposto tende a descrivere i processi di amministrazione dei pubblici uffici secondo stereotipi narrativi che farebbero impallidire E. L. James in quanto a maschilismo, oltre a starnazzare di relazioni fra docenti-uomini/studentesse-donne che richiamano alla mente il rapporto fra le Odalische e i Sultani – padroni volubili dei loro destini accademici.
Quando si scrivono articoli di un tale viscidume, sebbene ammantati da una coltre di intellettualismo spiccio perché contenenti la parola “Nietzsche” o la parola “parossismo”, non c’è da meravigliarsi se i commenti a piè di pagina assomigliano più ai gemiti di gorilla impegnati in una gang bang che non a riflessioni degne di questo nome:
O all’opinione di un proprietario di Solarium disoccupato che ha sostituito l’hobby della sintassi con quello della sociologia:
E non stiamo parlando di pezzi comparsi su la Gazzetta del Mesozoico firmati dalla Mummia del Similaun, ma di un giornale che dopo una serie di rocambolesche coincidenze fortunate si è trovato ad essere una delle principali testate italiane, e di un autore che ha sottotitolato il proprio testamento intellettuale con la frase “Contro i crimini della modernità”.
In questa estenuante battaglia contro la modernità, il professore potrebbe cominciare deponendo la penna o la tastiera e decidendo di utilizzare le proprie mani per fini ricreativi molto più nobili, che possibilmente non contemplino imputazioni per atti osceni in luogo pubblico: la masturbazione è il fatto privato per eccellenza e sarebbe dunque il caso di smettere di utilizzarla come lente d’ingrandimento della presunta cronaca politica, per cominciare a menarsi il fallo in religioso silenzio fra le quattro mura della propria dimora, invece che sulle colonne dei giornali, come è ormai abitudine quotidiana di editorialisti follemente innamorati del ministro Boschi che da sessantanni vivono e scrivono in uno stato di pubertà patologica estremamente preoccupante.
Francesco Floris
@Frafloris