Del: 6 Settembre 2014 Di: Alessandro Massone Commenti: 0

È impossibile non leggere le prime tre opere di Gary Shteyngart (The Russian Debutante’s Handbook, Absurdiastan, Super Sad True Love Story) come un crescendo, una trilogia di ironia e assurdità, satira e acuta critica che non si ferma mai una pagina senza volersi superare, senza esimersi dallo smontare e rimontare trame, personaggi, e l’autore stesso. È così che la sua opera d’esordio, il Russian Debutante’s Handbook, viene richiamata in Absurdistan come il Russian Arriviste’s Handjob e così a ogni pagina si fa sempre più chiaro quanta materia biografica sia stata versata dall’autore nei personaggi dei propri romanzi.

Paradossalmente, questa materia biografica era arrivata in superficie con Super Sad True Love Story, un romanzo distopico sopra le righe ambientato in un futuro dove i cittadini del mondo hanno imparato a convivere con il dispotismo in cambio degli ultimi e più scintillanti gadget. Tra alcune delle pagine più divertenti si annidano momenti di tenerezza, di debolezza, di paura — sentimenti veri, seppur senza mai essere sentimentali, che rendono la lettura devastante. Il lettore finisce così per ridere e ridere e riporre il libro, gonfio di tristezza.

Foto dell'autore

È così un percorso naturale, quello dal puro romanzo di satira, a Mi chiamavano Piccolo Fallimento. Un memoir divertentissimo scritto da un autore semplicemente in cerca di vendetta. E amore.

Mi chiamavano Piccolo Fallimento è una storia di formazione, e in qualche modo, di rivalsa.

Incontriamo così il piccolo ebreo russo Igor Shteyngart, un bambino brutto e spettinato, dall’asma soffocante e dalla lingua tagliente, e seguiamo la sua vita verso l’America, dove si trasferisce con la famiglia a sette anni.

L’umorismo marchio di fabbrica dell’autore si fa tranciante, mentre smembra se stesso, le proprie disgrazie, e l’amore “cattivo” dei suoi genitori. È testamento della grandezza di Shteyngart come autore, questa capacità di raccontare la propria vita terribile in una famiglia disfunzionale attraverso la lente dello humour e della satira, per ottenere una narrativa gonfia di onesto sentimento. Sentimenti trattati con una tale compostezza e con profilo così alto da avergli meritato pesanti paragoni con un altro russo naturalizzato statunitense, Vladimir Nabokov.

“Please love me”, scrive en passant a un certo punto dell’autobiografia, e strappa al lettore una risata roca, questa richiesta così infantile d’affezione. Finché non si fa chiaro quanto sia vera, necessaria, e mai risposta.

Perché per la sua famiglia, che sperava per lui un futuro da attraente avvocato o medico, Shteyngart è solo un “piccolo fallimento” — come il soprannome che gli affibbierà la madre durante gli anni del liceo, “Failurchka”, in un misto di russo e americano.

Per il “piccolo fallimento”, però, la scrittura non è un ripiego, ma l’unica via di fuga dall’essere un reietto, isolato e ignorato. Shteyngart dovrà passare per una lunga fase di abuso di droghe e alcol e uscire da una terribile depressione, per ricordare l’unica volta in cui si era sentito genuinamente accettato — quando a dieci anni aveva scritto un breve racconto di fantascienza che aveva incantato i suoi compagni di scuola.

E così scrive, e scrivendo arriva a questa sua autobiografia, perché se la letteratura è la sua arte inevitabile, la sua inevitabile necessità è quella di affrontare il proprio passato tormentato da un’infanzia segnata da una forte forma di asma, di cui in Russia non c’erano cure se non farsi squarciare la bocca forzandone l’apertura con un cucchiaio, a un’adolescenza apolide, visto quasi con compassione in casa, e come un caso umano a scuola.

Per questo, dicevamo, sembra a volte Shteyngart sia in cerca di vendetta — perché non si può vivere una vita del genere senza essere mossi da acredine e rabbia. Verso la Russia, che ha costretto i suoi genitori in fuga, e verso l’America, che si vanta di accogliere tutti, a patto si lascino riplasmare e gettino alle spalle chi sono davvero — come accade effettivamente all’autore, che da Igor diventa Gary, perché Igor è l’assistente di Frankenstein e Gary è un nome da attore affascinante, gli spiegherà la madre.

La vendetta e l’acredine vengono riposte nel cassetto, prima della conclusione del memoir, perché Shteyngart è un ometto troppo buono per se stesso, troppo caustico per il mondo. È invece chiaro che lo stemma del terribile nomignolo datogli dalla madre non si scioglierà mai — malgrado oggi “il piccolo fallimento” sia famoso in tutto il mondo per i propri scritti, insegni alla Columbia University, e viva a Gramercy Park con moglie e figlia, la sua nuova famiglia.

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Gary Shteyngart presenterà Mi chiamavano Piccolo Fallimento al Festivaletteratura di Mantova oggi alle 15:00 nel cortile dell’Archivio di Stato

Mi chiamavano Piccolo Fallimento è in libreria con Guanda. (18€)

Alessandro Massone
@amassone
Photo CC Mark Coggins

[Disclaimer: Questo post è stato scritto usando come riferimento l’edizione originale di Little Failure, edita da Random House]

Alessandro Massone
Designer di giorno, blogger di notte, podcaster al crepuscolo.

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