In Giappone la commistione tra apparato burocratico e governativo è ormai strutturale e sistematica. Di fatto, poi, sempre più spesso il primo finisce per prevalere sul secondo, innestando un riciclo vizioso di burocrati che depongono gli abiti civili e preferiscono la toga. Di recente, peraltro, alla burocratizzazione della classe politica si è affiancato il ritorno ad una sorta di sistema ereditario, che pare davvero riportare il Paese ai tempi togati della Roma Antica. Non stupisce dunque che il cittadino giapponese stenti a riporre fiducia nella politica e negli alti rappresentanti del proprio Paese, e che lo stesso si ripeta nei confronti dei mezzi di informazione tradizionali, giacché questi preferiscono autocensurarsi per evitare scontri con i poteri forti.
Tra i motivi più recenti del duplice disamore, l’approvazione avvenuta lo scorso 6 dicembre di una tanto discussa e criticata legge sul segreto di Stato, a seguito del via libera del partito liberaldemocratico guidato da Shinzo Abe: varata dalla Camera bassa, impone sanzioni più severe nei confronti dei funzionari statali che forniscano informazioni a giornalisti in cerca di notizie catalogate come “riservate”; questi potranno subire condanne che prevedono fino ad un massimo di dieci anni di reclusione, con l’accusa di aver favorito la fuga di notizie. Per giornalisti e operatori privati, invece, la pena massima ammonta a cinque anni.
Pare che tale legge – oltre a risultare molto più restrittiva rispetto alle normative precedentemente in vigore – pecchi di eccessiva nebulosità per quanto riguarda i criteri di determinazione della segretezza, i cui àmbiti particolarmente ampi sarebbero stati definiti in maniera approssimativa e vaga.
Di qui la denuncia partita a fine luglio per iniziativa di 43 giornalisti freelance giapponesi, apogeo delle numerose proteste dilagate fin dalla promulgazione: la legge che regola il segreto di Stato lede la libertà di stampa, limita il diritto all’informazione. Semplice e chiara la risposta del governo: la norma è una forma di tutela fondamentale, necessaria in primo luogo a contrastare il terrorismo nazionale e internazionale — una forma di tutela per il cittadino stesso; ed eccola, evidentissima, l’ombra dello scandalo NSA, l’ombra di Snowden — ecco spiegato il totale appoggio assicurato dagli USA alle nuove misure adottate in materia di sicurezza nazionale dal governo nipponico. Molti scettici ritengono tuttavia che la norma sia solo l’ennesimo espediente architettato dalle autorità per ostacolare le indagini sul disastro di Fukushima, o sul terremoto del 2011 verificatosi nella regione del Tohoku.
Potrebbe sembrare un brutto sogno – o un brutto toga-party – ma è bene sapere che in Italia, di fatto, la situazione non è poi tanto diversa, almeno per quanto riguarda il rapporto tra segreto di Stato, informazioni governative riservate e libertà di stampa e diritto all’informazione.
Lo scorso 22 aprile, il Presidente del Consiglio Renzi annunciava di aver firmato “direttive per la declassificazione dei documenti relativi alle stragi degli anni ’70 e ’80 in Italia”, oscurate prima dal segreto di Stato: Ustica, Peteano, Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Gioia Tauro, stazione di Bologna, rapido 904. Nonostante il gran clamore, non si è trattato di nient’altro che dell’applicazione di una norma di riforma dei servizi segreti italiani già precedentemente varata, la 124, apparsa sulla Gazzetta nel lontano 2007; oltre a fissare il termine di decadenza del segreto di Stato a 15 anni (prorogabili in casi eccezionali fino ad un massimo di 30), riconosce gli archivi dell’intelligence come patrimonio a disposizione di studiosi, storici, giornalisti, cittadini.
Sembra tutto così bello, così “trasparente” – tanto che proprio non sembra vero; e infatti, a ben guardare, c’è un piccolo, sottilissimo dettaglio ad illuminare di nuova luce l’ennesima brillante trovata da campagna elettorale, secondo quella sindrome mai superata dall’ex segretario PD. Quindi abbandoniamo i facili entusiasmi: non c’è alcun vaso di Pandora delle Verità nel quale gettare lo sguardo — o per lo meno, nel caso in cui ci fosse, non è dove ci illudono e ci illudiamo di trovarlo. Di certo non è tra le righe della 124/2007 e, soprattutto, non è sotto segreto di Stato; perché questo fu apposto, di fatto, solo in pochissimi casi, e quasi mai su documenti riguardanti le stragi degli anni di piombo. Si sono preferite piuttosto le formule di vincolo comprese nella scala del “riservato – riservatissimo – segreto – segretissimo”, àmbiti non interessati da quest’ultima normativa; classificazione che dovrebbe aver valore per una durata massima di 10 anni, ma suscettibile di proroghe “a discrezione”. E come biasimare allora le perplessità e gli scetticismi espressi, tra gli altri, dai presidenti dei comitati parenti delle vittime delle stragi di Bologna e Ustica:
“Uno slogan. È necessario aprire tutti gli archivi militari, dei Carabinieri, della Farnesina. Questo provvedimento è solo l’ultima beffa”.
Per quanto riguarda il segreto militare, basti sapere che fu inizialmente regolato dal regio decreto 116/1941, a firma di Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini, che naturalmente ne fece largo uso prima e durante la seconda guerra mondiale. Dei fatti di terrorismo verificatisi durante gli anni ’70 e ’80, solo quelli dell’Italicus furono coperti in parte da segreto di Stato per iniziativa di Bettino Craxi; nell’85, infatti, tentò di ostacolare le indagini su Augusto Cauchi (terrorista nero, leader degli ordinovisti aretini) e sull’operato del SISMI che, recuperato in Uruguay l’archivio su Licio Gelli, decide di restituire alle autorità sudamericane due fascicoli contenenti informazioni riguardo due politici italiani. Più di recente, il segreto fu apposto – e lì rimane – sulla documentazione del caso Abu Omar, su quella dell’arsenale fantasma della Maddalena e, ancora, sullo scandalo Telecom-SISMI.
Pertanto, un solo monito: non crediamoci così lontani dalla realtà giapponese, non lasciamoci ingannare dall’ennesimo specchio per le allodole. Almeno per rispetto delle vittime e delle loro famiglie.
Marta Clinco
@MartaClinco