Uno spettro si aggira in medioriente: è il Califfo Al-Baghdadi, il cui Stato Islamico (o IS, o ISIL, o ISIS, o Califfato) porta terrore in Siria e Iraq, diffonde angosce e timori in tutta l’area islamica, semina interrogativi e costernazione in occidente. Martedì Stati Uniti, Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Giordania ed Emirati Arabi Uniti hanno attaccato le basi militari dell’IS in Siria. Ancora non si sa se riusciranno o meno a indebolire un’organizzazione ormai fortissima, armata fino ai denti e con un eccellente controllo del territorio.
Ma perché Califfo e Califfato vincono? Chi li sostiene? Quali scopi hanno?
È necessario mettere ordine — la questione è complessa anche più di quanto appare — e procedere a passi non troppo lunghi.
FATTI E ANTEFATTI
Il primo nucleo dell’ISIS viene fondato nel 1999 in Iraq da Abu Musab Al-Zarqawi, un giordano che si è fatto le ossa nella guerra d’Afghanistan al fianco di Bin Laden. Quando gli Stati Uniti occupano la Mesopotamia, Al-Zarqawi decide di combatterli e si dichiara ”Emiro di Al-Qa’ida in Iraq”. È il 2004 e Al-Zarqawi e i suoi si fanno subito notare come uno dei più feroci e rilevanti gruppi jihadisti della regione. Il loro obiettivo è creare uno stato comprendente (almeno) Siria e Iraq, sottoposto alla legge islamica e con un fanatismo senza pari per la purezza della fede sunnita: un progetto di più ampio respiro rispetto al jihadismo ”classico”, che viene perlatro visto con sospetto dalle alte sfere di Al-Qa’ida. Il nome di Al-Zarqawi finisce in cima alla lista nera degli USA, che lo eliminano nel 2006 con uno spettacolare blitz aereo:
Gli americani sono sicuri di aver messo al tappeto, oltre a lui, anche il suo movimento; e in effetti l’ISIS rimane a lungo confinato nel Nord-Ovest iracheno senza concludere granché. Forse troppo sicuri di loro stesse, nel 2009 le autorità statunitensi scarcerano un detenuto arrestato cinque anni prima: Abu Bakr Al-Baghdadi, che nel giro di due mesi diventa il capo dei gruppi armati locali. Poche volte la libertà è stata concessa tanto malamente.
Come se non bastasse, la svolta per il movimento è vicina: la guerra civile in Siria, scoppiata nel 2011, è il trampolino di lancio dello Stato Islamico. Il fronte dell’opposizione all’inizio è largo e variegato: c’è l’esercito Siriano Libero, laico; ci sono i Curdi; e ci sono una miriade di gruppi qaedisti che vogliono portare avanti il loro jihad. All’inizio l’ISIS è solo uno tra questi ma col procedere del conflitto diventa sempre più forte e ingombrante. Fino a diventare scomodo persino per Al-Qa’ida, che in un messaggio dell’aprile 2014, dopo lunghi attriti, lo espelle dall’organizzazione. Ma Al-Baghdadi non sembra curarsene troppo, anzi: il 29 giugno compare in pubblico e durante un sermone si autoproclama Califfo, dominante per volere di Allah sul neonato Stato Islamico (Islamic State, da cui IS).
L’IS controlla già una buona fetta di territorio, compresa la città di Raqqa, capoluogo dell’Est siriano, ed è fortissimo. Tra le sue fila annovera molti musulmani stranieri venuti a combattere la guerra santa, jihadisti di altre formazioni attratti dal carro del più forte e moltissimi iracheni. E infatti è all’Iraq che guarda. Scavalcato il friabile confine che separa lo stato mesopotamico dalla Siria, lo invade: partendo da Nord-Ovest e seguendo le valli dell’Eufrate e del Tigri — il percorso di innumerevoli invasioni che hanno sconvolto quest’area di antichissima civiltà fin dalla notte dei tempi — con una vera e propria guerra lampo si impadronisce di una serie di città tra le quali Mosul (11 giugno), seconda città irachena con 2 milioni di abitanti, 425 milioni di dollari custoditi nella banca centrale e la diga sul Tigri che regola la distribuzione della preziosa acqua in tutta l’arida Mesopotamia. L’esercito iracheno si squaglia come neve al feroce sole mediorientale; i sospetti che le locali popolazioni sunnite — stufe di essere bistrattate dal governo sciita di Al-Maliki — sostengano gli invasori si teme essere fondato. L’unica forza che sembra riuscire a resistere sono le milizie curde Peshmerga, ma a fatica: conquistando Mosul, l’ISIS ha messo le mani su un deposito di armi americane e la sua forza continua ad aumentare con un effetto valanga. A Baghdad il governo dell’inadeguatissimo Al-Maliki va nel caos. Iran e USA fanno pressione su di lui perché si dimetta e dopo un braccio di ferro concitato riescono a installare un nuovo presidente, Al-Abadi, che prova a distendere le tensioni interne al Paese.
Intanto, i riflettori internazionali si accendono sul movimento.
Il fanatismo dell’ISIS suscita sdegno in tutto il mondo quando costringe i centomila cristiani di Mosul a scegliere tra pagare o convertirsi o morire, quando insegue la minoranza Yazida in fuga sulle montagne con l’apparente intento di sterminarla, quando diffonde videomessaggi allucinanti in cui sgozza reporter occidentali.
Molti premono per un intervento armato. Obama comincia con l’inviare cibo agli Yazidi e a rompere il loro assedio con qualche bombardamento. Poi, martedì, il blitz vero e proprio: un attacco su più larga scala compiuto con gli alleati mediorientali per colpire i quartieri generali dell’IS in Siria e in Iraq; bombe cadono sulla città di Raqqa, almeno duecento sono i morti tra le file jihadiste.
CHI HA GIOCATO CON L’ISIS
È difficile spiegare in breve come abbia fatto l’IS a uscire alla ribalta in modo così prepotente. Possiamo partire dalla rivalità spietata che corre tra Iran e Arabia Saudita, l’ingranaggio profondo di tanti fatti mediorientali non solo da oggi, ma da decenni e forse secoli. È una rivalità religiosa, sciita l’Iran, sunnita l’Arabia Saudita,—etnica, indoeuropei gli iraniani, arabo-semitici i sauditi, e di interessi economici.
L’Arabia Saudita è un’alleata di ferro degli USA fin dal 1942, quando il fondatore Abd Al-Aziz Ibn Sa’ud e Franklin D. Roosevelt si incontrarono segretamente per la prima volta a Salt Lake City. Da quel momento l’alleanza non è mai arrivata davvero vicina a rompersi; tra USA e gli ayatollah invece non è mai corso buon sangue. È chiaro che l’inserimento dell’Iran tra gli ”stati-canaglia” da parte di George Bush nel 2005 e la continua tensione dell’ultimo decennio non poteva che far piacere in casa Sa’ud; ed è altrettanto chiaro che la recente distensione dei rapporti tra gli iraniani e gli statunitensi ha fatto storcere il naso in casa Sa’ud. Anzi, li ha fatti andare su tutte le furie.
Dopo la fallimentare presidenza Ahmadinejad infatti — durante la quale i rapporti dell’Iran con l’Occidente, Israele e l’Arabia erano tesi come corde di violino — la Guida Suprema iraniana (l’ayatollah Ali Khamenei) ha scelto di puntare su Hassan Rohani, più moderato e disponibile al confronto con la controparte (per provare a capire come funziona la politica iraniana, leggete qui). Tema caldo: la proliferazione nucleare. La teocrazia persiana vorrebbe a tutti i costi dotarsi di energia atomica ma l’Occidente (Israele su tutti) è in larga parte ostile, temendo che gli Ayatollah si facciano prendere la mano e si dotino anche della bomba. Così, negli anni, è stato imposto al Paese un sistema di sanzioni che ne ha imbavagliato l’economia. Rohani viene eletto nel 2013 e le cose cambiano: viene intavolato un negoziato e la tensione diminuisce in modo sensibile. D’altro canto, già nel 2007 — quando era solo un senatore rampante — Obama aveva dichiarato che il riallacciamento dei rapporti diplomatici con l’Iran era a suo dire fondamentale per ricostruire un equilibrio stabile in Medioriente.
L’Arabia incomincia a questo punto a finanziare i ribelli che combattono in Siria Bashar al-Assad, alleato dell’Iran, sperando di mettere i bastoni tra le ruote all’apertura iraniana verso il mondo: tra i fortunati destinatari dei fiumi di petroldollari sauditi ci sono soprattutto le fazioni jihadiste sunnite, tra cui pure l’ISIS. Il risiko saudita in favore dell’estremismo fa però anche il gioco dello stesso Assad il quale, a causa delle vicende siriane, si era ritrovato isolato dalla comunità internazionale e dipinto come un mezzo Satana. Ha scelto allora di non reprimere tutte le opposizioni con pari fermezza ma di chiudere un occhio su quelle più estremiste nella speranza di creare un mostro così orribile che la comunità internazionale avrebbe dovuto per forza stare dalla parte del regime contro di esso. Mossa machiavellica perfettamente riuscita: oggi quel mostro si chiama IS e Obama l’ha appena bombardato.
Il gioco è infatti ormai sfuggito dalle mani grondanti petrolio di Ryad: l’IS ha infatti messo le mani su abbastanza risorse (pozzi petroliferi in primis) per mantenersi da sé, e non è più dipendente e manipolabile dai signori del Golfo. E ora l’Arabia teme per la propria incolumità: l’IS ha già fatto sapere che nell’elenco – piuttosto nutrito – dei suoi nemici c’è anche l’Arabia Saudita.
IL CALIFFATO, IL FUTURO
È nato è un totalitarismo bello e buono, che nulla ha da invidiare ai suoi simili europei del secolo scorso quanto a crudeltà e ferocia, ideali di purezza, presunta complessità ideologica, odio per il nemico e totale asservimento ai propri ideali della popolazione sottomessa — alla quale è chiesto non solo di obbedire ma addirittura di sposare e amare il nuovo e meraviglioso Stato Islamico.
Per rendersi appieno conto di come sia la vita sotto il turbante del Califfo, può essere utile questo ottimo reportage:
Si capisce bene perché il progetto dell’IS sia di ampio respiro. Il passaggio del tribunale è emblematico: ci si potrebbe aspettare, da una schiera di guerriglieri fondamentalisti, un’amministrazione della giustizia raffazzonata e primitiva, amministrata in modo sommario. Invece primitiva in effetti lo è, ma niente affatto raffazzonata: l’IS si è ben installata negli organi giuridici e vuole amministrare il proprio territorio con rigore e con autorevolezza.
Non bisogna dimenticare il nome che s’è scelto: Stato Islamico. Si ritiene un ente non esclusivamente militare e di conquista, ma anche e – forse soprattutto – di amministrazione, con una visione e progetti a lungo termine per i propri domini.
Oggi parrebbe contare circa 50.000 uomini in armi. La maggior parte sono siriani, che costituiscono la truppa più umile; la maggior parte dei quadri sono stranieri, spesso occidentali, ma soprattutto iracheni.
L’ISIS ha sbancato in Iraq anche perché ha saputo ottenere la non opposizione, la tacita approvazione o in qualche caso il sostegno aperto delle tribù sunnite e del Nord-Ovest dell’Iraq, stufe di essere bistrattate dal governo iracheno di Al-Maliki che, sciita, le discriminava tenendole lontane dal potere e – soprattutto – dai proventi della vendita del petrolio. Ma non sono i soli: tra le fila del Califfo si contano moltissimi esponenti del partito Baath, ovvero il vecchio partito di Saddam Hussein, desiderosi di farla pagare agli americani e ai traditori. Inoltre, il Califfo sobilla come da copione la popolazione locale contro l’Occidente, calcando su un revanscismo panarabo latente nella zona. Ha saputo affermarsi come la più forte entità di riscossa in una regione in cui, per almeno un secolo, i regimi politici sono sempre stati ostaggio o emanazione dei voleri di potenze straniere, in primo luogo occidentali.
C’è motivo di temere per la nostra pelle? A sentire l’amministrazione americana, sì: obiettivo del raid di martedì notte era anche distruggere una forza affiliata al Califfo, quella Khorasan, che sarebbe stata vicinissima a realizzare un attentato in America. In effetti ogni totalitarismo ha bisogno di un nemico di cui vendicarsi — di razza, classe, religione. Nel caso dell’IS sono sì gli sciiti ma soprattutto gli occidentali, i crociati. Recentemente, l’IS s’è fatto vanto di aver abbattuto il confine tra Siria e Iraq e aver riunito dopo lungo tempo i due Paesi. Il confine in questione venne tracciato in modo del tutto arbitrario dagli europei dopo la Prima Guerra Mondiale e il crollo dell’Impero Ottomano con gli accordi di Sykes-Picot, con lo scopo di spartirsi il Medioriente. Nella testa dei jihadisti, è stato come aver buttato giù il muro di Berlino. Ecco che si trova sotto l’hashtag #sykespicotover:
Non sarà facile averla vinta contro l’IS per chi vorrà combatterlo, anche perché il Califfato è la forza jihadista più ricca di sempre: il gruppo dispone di 875 milioni di dollari. Gli Stati Uniti hanno provato a fare un passo in avanti bombardando col sostegno (poco più che nominale) degli alleati del Golfo le basi del Califfo ma già ci si chiede se basterà intervenire solo dal cielo. Molti sostengono di no e speculano su come potrebbe essere organizzata una possibile spedizione via terra: sono state messe in campo teorie irrealizzabili o fantasiose, come quelle di affidarsi all’esercito siriano e iraniano o di armare un esercito di rifugiati mediorientali(!). Obama, in Iraq, proprio non ci vuole mettere fisicamente piede dopo essersene andato due anni fa. Eppure quanto sta succedendo è anche colpa del suo Paese, COME SCRIVEVAMO IN UNO SCORSO ARTICOLO. La sua teoria del disimpegno, secondo la quale l’America deve interferire il meno possibile con le vicende interne dei Paesi mediorientali o al massimo farlo per procura, si sta rivelando fallimentare almeno quanto quella dell’ esportazione della democrazia del suo predecessore.
Il giornalista che ha realizzato il documentario, il palestinese Midan Dayriyya, ha detto di aver trovato particolarmente interessante nella sua opera la sequenza in cui compare il jihadista belga che chiede a suo figlio cosa preferisce tra il jihad e un attentato suicida: «”La guerra santa agli americani e agli infedeli”, risponde il bambino. Il Califfato è questo: punta sulle giovani generazioni, è l’investimento meno visibile sui campi di battagli a ma più preoccupante». Chi scrive concorda con Dayriyya. C’è anche un altro rischio di questo genere, figlio della politica dell’esportazione della democrazia:
se l’America è il nemico e l’America è associabile alla democrazia, anche la democrazia è un nemico.
Questo ragionamento rischia di bollare la democrazia stessa come un sistema politico e di valori da rigettare per le prossime generazioni. Che, è lecito temere, non avranno buoni maestri.
Stefano Colombo
@Granzebrew