Del: 29 Settembre 2014 Di: Stefano Colombo Commenti: 0

Accadeva esattamente 57 anni fa, ma non lo sa quasi nessuno.

Majak, Siberia occidentale. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’URSS si è resa conto di non essere al passo rispetto ai rivali statunitensi nella corsa agli armamenti atomici. Stalin vara un programma a tappe serrate per rimettersi in pari, con la costruzione di vari impianti in località segrete: vengono fondate vere e proprie città nucleari. Tra queste c’è il complesso di Celyabinsk-40, ora noto come Majak, dedito all’arricchimento del plutonio necessario agli ordigni.

Il 29 settembre 1957, il sistema di raffreddamento di un contenitore di liquido radioattivo si guasta. Il contenitore esplode. Settanta tonnellate di liquido – in particolare di nitrato di ammonio – finiscono nel vicino fiume Techa e nell’atmosfera, creando una nuvola che si spande per chilometri: nelle successive 10 ore si dirige a Nord-Est, inquinando aree fino a 300 chilometri da Majak. Il governo sovietico non diffonderà la notizia.

Per i pochi informati, questo sarà il ”Disastro di Kyshtym”, visto che la segretissima Majak non è segnata su nessuna cartina civile.

Tra gli informati non ci sono i cittadini: l’impianto di Majak è sottoposto a segreto e chi abita nei paraggi non ha idea di cosa accada all’interno. Semplicemente, le forze dell’ordine ingiungono agli abitanti dei villaggi più colpiti di abbandonare le loro case. Il piano di evacuazione, tuttavia, procede in modo assurdamente lento: i primi sgomberi si tengono dopo una settimana. Gli ultimi, addirittura due anni dopo i fatti.

Nessuno sa quante vittime abbia causato l’incidente di Kyshthym.
Nessuno, a dire il vero, sapeva praticamente nulla di quanto fosse successo – né a Ovest né ad Est della cortina di ferro – fino a che, nel 1976, lo scienziato dissidente Zhores Medvedev denunciò l’accaduto di vent’anni prima. Medvedev venne addirittura deriso come bugiardo e incompetente da una parte della comunità scientifica occidentale. Ci volle la conferma di Leo Tumerman, ex direttore dell’Istituto di Biologia Molecolare di Mosca, perché tutti si rendessero conto che quanto narrava Medvedev era vero.

Quando venne costruito l’impianto di Majak, infatti, la comunità scientifica sovietica era incompetente in fatto di energia atomica. Gli ordini di Stalin erano di fare il più in fretta possibile e le conoscenze degli scienziati erano ancora superficiali: le ricerche scientifiche più avanzate erano condotte oltreoceano e ciò che gli esperti sovietici sapevano era soprattutto frutto dello spionaggio all’avversario. L’incidente del 1957 si verificò perché il sistema refrigerante di un recipiente colmo di liquido radioattivo si era rotto senza che nessuno si prendesse la briga di ripararlo. Non solo: erano ignoti quasi del tutto i rischi ambientali connessi alla radioattività e la centrale di Celyabinsk-Majak, nei primi anni di produzione, scaricò nel fiume Techa e nei numerosi laghetti della zona quantità considerevoli di inquinanti radioattivi.

Anche per questo è difficile dare una stima esatta dei decessi strettamente collegati all’attività della centrale: la contaminazione della regione non è dovuta solo all’incidente del 1957, ma è stata prolungata nel tempo.

Dall’installazione dell’impianto, l’area pare essere stata irraggiata da una dose complessiva di radiazioni pari a quella rilasciata dalla bomba di Hiroshima.

Le stime variano da quelle estremamente drammatiche — che raccontano di persone straziate dalle radiazioni e di 8000 morti di cancro — ad altre che fanno notare come, in quella zona, in trent’anni si siano verificate solo 6000 morti complessive: per fortuna è infatti un’area scarsamente popolata. E non molto invitante.

Oggi Majak è ancora in attività. Il governo russo l’ha destinata al riprocessamento delle scorie nucleari – anche straniere – e alla produzione di nuovo combustibile, ma non sembra aver imparato dagli errori del passato: nel 2011 un gruppo di lavoratori dell’impianto ha pubblicato una lettera sulle testate locali, diretta al Presidente Putin, in cui denuncia il mancato rispetto delle condizioni minime di sicurezza dell’impianto e una rete di corruzione generalizzata. Per esempio: i tubi di raffreddamento della centrale non sarebbero quelli prescritti dalle norme russe, ma collettori cinesi di qualità non soddisfacente, e il silenzio di chi di dovrebbe controllare sarebbe stato comprato a suon di rubli. Di certo c’è il fatto che la centrale ha subito altri incidenti nel corso degli anni, due dei quali – nel 1994 e nel 2003 – sono costati alla centrale la temporanea revoca dell’abilitazione.

Se masticate inglese, questo video del reporter Markus Reher per Deutsche Welle è un buon reportage su come si vive oggi all’ombra della centrale:
[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=-MVLYPkMlBA[/youtube]

Oggi le autorità sono concordi nel definire l’area di Majak perfettamente agibile, sicura dalle radiazioni. Ciononostante, una larga regione adiacente fa registrare ancora livelli di radioattività superiori alla norma e l’incidenza di tumori e malformazioni è molto più alta che nel resto della Russia. Il distretto di Celyabinsk è poverissimo. Gli abitanti dipendono ancora dal fiume Techa – nel quale d’estate non di rado si tuffano – per l’agricoltura e hanno idee nebulose su cosa sia accaduto sessant’anni fa. Fino all’era sovietica, ogni anno venivano condotti nel capoluogo per essere visitati da alcuni medici, anche se sembravano stare benissimo. Era per poter monitorare gli effetti delle radiazioni sul fisico umano nel loro periodo, ma loro non sapevano perché.

Stefano Colombo
@Granzebrew

Stefano Colombo
Studente, non giornalista, milanese arioso.

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