Del: 22 Ottobre 2014 Di: Arianna Bettin Commenti: 0

Lo sport come siamo abituati a intenderlo oggi, lo sport propriamente olimpico, è fenomeno in realtà incredibilmente recente. E’ passato poco più di un secolo da quando il barone De Coubertin decise di riesumare dalla terra attica il concetto di Olimpiade, pregno di quei valori nobili e universali che la pratica sportiva è capace di trasmettere e che s’intendeva tradurre nel difficile contesto di un’Europa lanciata verso il primo conflitto mondiale.
Certamente la sua idea dei Giochi ben si distanziava dalla visione che ne abbiamo oggi: assolutamente dilettantistiche, le prime edizioni videro sfidarsi rappresentative provenienti da poche nazioni in un numero assai ridotto di specialità, perlopiù riferibili ai ludi classici.

Figlie a loro modo del vitalismo decadente, dell’esaltazione della potenza e del bel gesto, della celebrazione della virilità passante per il corpo e per l’attività fisica, le Olimpiadi moderne non davano inoltre spazio alcuno alla pratica femminile.

Il più strenuo oppositore alla partecipazione delle donne ai Giochi fu proprio De Coubertin, che riteneva scandalosa l’idea di lasciare a delle atlete libero accesso alla sua creatura e sosteneva che non sarebbe stata «né utile, né pratica, né esteticamente corretta» un’Olimpiade en rose.

Dovette cedere, suo malgrado, alle crescenti pressioni del movimento sportivo femminile: all’edizione di Stoccolma del 1912 poterono partecipare – su gentile concessione del Barone – cinquantasette donne. Cinquantasette su duemilacinquecento, guardate con la diffidenza e l’ironia con cui si guardano i fenomeni da baraccone. Troppo femmine per essere considerate al pari dell’uomo, troppo poco femminili per esser concepite in quanto donne. “Atletesse”, come le definì con odio e disprezzo un giornalista olandese in occasione dei Giochi di Amsterdam.
Degli spiriti eccentrici, frutto degenerato della libertà e della dilagante corruzione dei costumi; facevano storcere il naso ai benpensanti, queste atlete, al pari delle puttane e delle attricette, o delle femministe, che con sempre maggiore insistenza chiedevano persino il diritto di voto.

sportfemminile1

Mentre il movimento si allargava, in Inghilterra veniva messo al bando il calcio femminile e le nascenti dittature occidentali – a differenza di quella sovietica, in cui si sosteneva la parità di genere – diffondevano un prototipo di donna squisitamente domestico, asservito al padre prima e al marito poi, intento esclusivamente nella procreazione e nella cura del focolare. Un modello di donna agli antipodi di quello richiesto nell’ambito di una qualsiasi pratica sportiva: fragile, docile e remissiva, dipendente, incapace di autosostenersi e autogestirsi, intrinsecamente destinata all’obbedienza e al rispetto del limite. Delicata e inconsistente, sempre esteticamente perfetta e adeguata, pronta a compiacere e accondiscendere i desideri dell’uomo.

Un’immagine di donna che, volente o nolente, seppur in modo sublimato e velato, ci portiamo in qualche modo sulle spalle, perpetrato nei canoni di bellezza odierni, e che fa rabbrividire i più affezionati alla vista di un addominale più scolpito, un quadricipite più marcato, un deltoide definito. Una muscolatura ben tornita non stona mai sul corpo di un uomo, ma su quello di una donna è giudicata spesso irrimediabilmente mascolina, dalle donne in primis.
Questo scontro inevitabile fra stereotipo e fisico colpisce le atlete di oggi esattamente come colpiva quelle di ieri, seppur in maniera più subdola.

Il senso d’inadeguatezza che portò la bellissima nuotatrice statunitense Eleanor Holm ad affermare nel 1932 «Io lascerei immediatamente il nuoto se i miei muscoli iniziassero ad assumere una parvenza troppo maschile», porta oggi una maggior incidenza di disturbi alimentari fra le ragazze che praticano sport e una maggiore percentuale d’abbandono dell’attività fisica, soprattutto nell’adolescenza.

E’ ancora difficile accettare che un muscolo pronunciato su un corpo di donna non sia “mascolino”, ma sia letteralmente “femminile”, proprio della donna perché naturalmente proprio del suo corpo, della sua conformazione.

it's a men's world Collage

Ma al di là dell’aspetto estetico, l’immagine della donna sportiva risultava in ultima analisi pericolosa, sconvolgeva la visione tradizionale della buona madre di famiglia, dell’angelo del focolare che il pensiero conservatore difendeva, e ciò si evince anche dalla forte opposizione che incontrò nel mondo ecclesiastico. L’ostilità allo sport femminile era talmente aperta che lo stesso Pio XI si pronunciò sfavorevolmente a riguardo, invitando da Piazza San Pietro le atlete italiane a non partecipare ai Giochi.
Il Fascismo, che pure – sull’onda del suddetto culto del corpo e della virilità, teso però alla superiorità militare – invitava il popolo tutto, donne comprese, all’attività ginnica, limitava la pratica femminile consigliata al tiro con l’arco e al nuoto, per una mera questione di irrobustimento ai fini del parto. A seguito dei Patti Lateranensi, venne imposto il ridimensionamento dell’esercizio fisico femminile, non più propriamente sportivo, ma «moderatamente sportivo», secondo la falsa credenza che lo sforzo richiesto dalla pratica agonistica fosse eccessivo e dannoso ai fini della procreazione.

Le pressioni da parte della Chiesa e del regime non impedirono comunque alle italiane di conquistarsi un posto nella storia dello sport. La prima medaglia in assoluto dell’atletica leggera italiana arrivò nel turbolento 1936 e a vincerla fu proprio una donna.

Nonostante la forti resistenze, De Coubertin in testa, nel 1952 la metà delle rappresentative comprendeva una delegazione femminile, ma ancora nel 1968 il numero delle atlete non superava il 12% del totale e molte discipline erano loro precluse.
Non potevano prender parte nemmeno alla maratona, specialità simbolo dell’Olimpiade — i 42,195km di corsa così battezzati in memoria della battaglia combattuta nel 490 a.C. nell’omonima piana (quella di Maratona, appunto) tra greci e persiani. La leggenda, tramandata e reinterpretata in ultima istanza da Luciano da Samostata, narra di Phidippides, giovane soldato ateniese che venne incaricato di correre sino all’acropoli della polis per annunciare la vittoria ai suoi concittadini e che, giunto a destinazione, morì, stremato per lo sforzo immane, al grido di «Νενικήκαμεν», «Nenikékamen», «abbiamo vinto».
Fortemente voluta dal Barone, poiché in essa venivano riassunti i più alti valori dell’impresa agonistica, fu appannaggio del genere maschile fino a tempi recentissimi: fino al 1984.

Prima di quella data, numerosi furono i tentativi di far ammettere le donne alla competizione, almeno in ambito non olimpico. Il caso più eclatante fu quello della maratoneta statunitense Kathy Switzer, che s’iscrisse nel 1967 alla maratona di Boston come “K. V. Switzer”. Grazie a questo stratagemma, poté presentarsi alla partenza indisturbata, col pettorale 261. Nel corso della competizione però i giudici s’accorsero della sua presenza e cercarono di fermarla in tutti i modi, persino con la forza. Difesa dal fidanzato che le correva affianco, la giovane Kathy riuscì ad arrivare fino allo stadio, dove tradizionalmente si conclude la maratona, ma le fu impedito di entrare e di terminare la sua gara.

discriminazione. sportfemminile4

Ci sembrano racconti lontani nel tempo, di un’altra epoca, e ci scandalizziamo di fronte al velo o ai costumi integrali delle atlete musulmane, eppure ci basta tornare indietro di una o due generazioni per ripiombare nel nostro Medioevo sportivo, e per certi versi non possiamo affermare di esserne usciti. Basti pensare che fino ai Giochi di Londra 2012 il pugilato femminile non era disciplina olimpica.
Permane ancora, infatti, lo strano, tacito pregiudizio di un’inferiorità che straripa dai suoi argini, ossia quelli di una naturale minor forza bruta, e investe le altre qualità fisiche e mentali che fanno il buon atleta: la resistenza al dolore, alla fatica e allo stress, la precisione, la velocità, l’elasticità, l’equilibrio, la coordinazione e via dicendo. Qualità che in un’atleta sono sviluppate al pari, se non in misura maggiore rispetto all’uomo, proprio per compensare una fisiologica minor potenza.

Sono pregiudizi smentiti regolarmente dai fatti. Tornando alla maratona, è sufficiente confrontare i progressi compiuti dalle podiste rispetto ai loro colleghi dal loro esordio per rendersi conto dell’insussistenza di un simile preconcetto. Se dal 3:27:14 di Dale Greig fatto segnare nel 1967 il record femminile è stato abbassato di più di un’ora, fino ad arrivare nel 2003 al 2:15:25 di Paula Radcliffe, dal 1967 al 2013 il record maschile è stato ritoccato di soli sei minuti, arrivando a 2:03:23. Poco più di dodici minuti, accumulati in 42km di corsa, separano “sesso debole” e “sesso forte”: un’inezia. Ciononostante le donne vengono considerate deficitarie e lo sport femminile posto sistematicamente in secondo piano.
E non si tratta di una mera percezione di ragazza: il 95% della stampa sportiva si occupa di sport al maschile; poco importa che il settore femminile ottenga spesso più risultati di quello dell’altro sesso e poco importa che le donne che fanno sport, sia amatorialmente che agonisticamente, siano sempre di più. Se già risulta difficile emergere a livello nazionale per gli atleti dei cosiddetti “sport secondari”, soffocati dall’estenuante iperfocalizzazione dei media sul calcio, per le donne, per quanto eccezionalmente brave, è praticamente impossibile.

La lunga e giovane marcia dello sport in rosa, faticosissima anche se sempre più in discesa, è quindi ancora in divenire e si inserisce di diritto – per usare una metafora calzante – con maglia da titolare, in una partita ben più importante.

Attraverso la disamina delle difficoltà che le donne hanno incontrato e incontrano in questo ristretto ambito si può leggere facilmente il progresso di una battaglia più ampia, una marcia ancor più antica, quella della parità di genere, di cui s’inizia finalmente a intravedere il traguardo.

Ma si sa, gli ultimi metri sono sempre i peggiori, i più rischiosi, e chissà, qualcuno potrebbe sbarrarci la strada all’ingresso dello stadio.

Arianna Bettin Campanini
@AriBettin

Arianna Bettin
Irrequieta studentessa di filosofia, cerco di fare del punto interrogativo la mia ragion d'essere e la chiave di lettura della realtà.
Nel dubbio, ci scrivo, ci corro e ci rido su.

Commenta