Del: 10 Ottobre 2014 Di: Marta Clinco Commenti: 0

Si va per l’Appennino non più dolente, si va per i ponti saltati in guerra. Ora li hanno ricostruiti. Nella memoria, no. Borgotaro, una manciata di tornanti ed è Belforte: terra di confine, di frontiere; rocca dimenticata dal mondo ma sopravvissuta al suo tempo, intatta. Un fascino silenzioso guarda a valle e oltre il monte. Sergio Giliotti, classe spezzina 1926 – nome di battaglia Sparviero – attende in casa. La stretta di mano è forte. Negli occhi è ancora ragazzo.

In viso la stessa gentilezza di quella fotografia di gruppo, anno 1944, appesa accanto alla finestra, accanto a quella dei genitori: due famiglie. Sono i compagni della Seconda brigata Julia. “Sono morti tutti. Quello in borghese, il commissario di guerra della brigata, probabilmente aveva i pidocchi”.

È proprio il ’44 l’anno in cui entra a far parte delle formazioni partigiane. “Frequentavo a Genova il terzo anno del liceo scientifico dai Gesuiti, tutti antifascisti. Finito l’anno scolastico nel giugno ’44, sono tornato qui a Belforte, dove mio padre possedeva alcuni terreni. Durante l’estate lo aiutavo con il lavoro nei campi, in ottobre riprendevo la strada del collegio. Ma quell’anno, no: nel 1944 sono diventato partigiano”. Seconda brigata Julia, di estrazione cattolica – come buona parte delle 21 formazioni attive nella provincia di Parma. Appoggiata alla V Armata americana che le forniva le armi necessarie, tentava in ogni modo di impedire i collegamenti e le comunicazioni tra le postazioni tedesche disseminate lungo l’Appennino e nel parmense. La V americana, nel frattempo, risaliva lo Stivale lungo il Tirreno, aveva già occupato Firenze e attendeva di sferrare l’ultimo, decisivo, colpo sulla Linea Gotica — azione poi rinviata alla primavera del ’45.
Nel distaccamento della Seconda Julia c’era una sola donna. Altrove se ne trovavano anche tre, quattro. Ma giacché divennero motivo di lite tra uomini, nel dicembre ’44 era giunto l’ordine di non utilizzarle più in formazioni partigiane, per attacchi e missioni. Furono dunque impiegate per il lavoro di staffetta, molto delicato e pericoloso — lavoro affidato a quelle donne che avrebbero potuto passare inosservate. Era necessario e fondamentale soprattutto per i collegamenti tra la montagna e Parma. Per gli uomini sarebbe stato impossibile superare i posti di blocco.

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Chi è quell’asino laggiù?

La prima azione cui partecipa è condotta sulla strada della Cisa. “Stava passando un convoglio tedesco, noi dovevamo attaccarlo. Mi hanno dato due bombe a mano: avrei dovuto lanciarle contro il camion, farlo saltare e poi risalire, su per la montagna. Ho esitato un momento — abbastanza perché due camionette tedesche ci raggiungessero e iniziassero a sparare nella nostra direzione. Mi sono ritirato dietro un grande sasso. Di sopra il comandante della brigata Giuseppe Molinari, ufficiale degli Alpini: «Chi è quell’asino laggiù, che si tira dietro il fuoco tedesco?». Naturalmente, ero io. Sentivo le pallottole picchiare contro il sasso, come lame tagliare la pietra, fischiare sopra la mia testa, con tonfi sordi incastonarsi negli alberi intorno. Poi le bombe a mano, la tregua; ho infilato il costone, e via, via. Me l’ero vista brutta”.

Al termine di un altro attacco, fatti saltare i camion, erano rimasti due soldati tedeschi a terra, entrambi morti.

Un terzo accovacciato lì accanto si stringeva la gamba sanguinante; era grave. Sparviero afferra il suo pacchetto di medicazioni, lo lancia al tedesco ferito, fugge. Raggiunta la brigata, il comandante tuona: “Hai fatto bene. Ma non prendere troppa confidenza: con questa leggerezza, una volta o l’altra, ti fanno fuori davvero”.

Il 2 febbraio ’45 i tedeschi gli incendiano la casa. Ancora visibili su alcuni dei mobili i segni del fuoco nazista: “Hanno messo la paglia sotto il tavolo e le han dato fuoco; bruciate le gambe, il tavolato ha ceduto, soffocando le fiamme. Lo stesso avevano fatto con i letti, perché il materasso di lana non brucia, no. Non appena hanno lasciato la casa, sono accorsi i cittadini del paese per aiutarci a spegnere il fuoco. Ti bruciavano la casa, gli affetti, e non potevi far nulla per impedirlo”.

Era la guerra

E comunque, a casa, si cercava di non tornarci spesso. “Se ti trovavano, ti arrestavano la famiglia o peggio”. Si contava tuttavia sull’appoggio incondizionato dei contadini, che offrivano sempre un rifugio per la notte, un bicchiere di latte, un pezzo di pane. Quel che avevano. “Io ero uno dei più giovani; sembravo anzi più giovane di quanto in realtà non fossi. Quando andavo agli attacchi, i superiori dicevano: «Ma non mandatecelo mica, quello lì! È un ragazzino!», e i compagni:«Un ragazzino, sì, ma è l’unico che sa impugnare il mitragliatore come si deve»”.

In ogni caso, si cercava sempre di non ammazzare. “Ricordo che una volta erano stati catturati due tedeschi, due poveri diavoli che volevano solo fuggire. Sono stati portati al comando che, dopo averli interrogati, li ha lasciati andare. Giunti sulla strada provinciale, un partigiano ex carabiniere – nome di battaglia Reale – ci ha piantato una fucilata in testa, a tutti e due. Il comandante, non avendo gli strumenti per processarlo, ha disposto che venisse disarmato e cacciato dalla brigata. «Ne risponderai alla giustizia, quando la guerra sarà finita», diceva, ma alla fine se l’è cavata affermando di esser stato minacciato, di esser stato costretto a sparare.

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Era la guerra, ed era anche questo. C’era un codice – oh, se c’era. Ma non sempre era facile far sì che tutti si comportassero com’era giusto. La vita era sempre a rischio.

Ad ogni modo, questo è stato l’unico caso nella nostra Julia; oltretutto, i prigionieri tedeschi che tenevamo in distaccamento servivano per lo più come merce di scambio, per liberare partigiani fatti prigionieri dal nemico. E pensate che quei tedeschi, fatta eccezione per rari casi, nemmeno volevano esser scambiati: avrebbero preferito restare con noi nell’attesa che finisse la guerra, per poi fare ritorno a casa”.

Sparviero partecipa in tutto ad una quarantina di attacchi — combattimenti veri e propri solo quattro o cinque. Nel corso dell’ultimo assalto sulla Cisa, quello del 27 aprile ’45, la brigata attacca le retroguardie della divisione Göring, in ritirata dal fronte della Linea Gotica, dalla Garfagnana. Nella Seconda erano rimasti in pochi ormai. Con loro, anche alcuni russi fuggiti dai campi di concentramento tedeschi. L’attacco, sferrato nei pressi di Berceto, non era stato facile: Barbagianni (così si chiamava il russo), raggiunto da una pallottola nemica, si era accasciato sul tronco del castagno, sangue alla bocca.

“Mi faccio subito in piedi, e sparo e sparo contro i tedeschi, mentre il comandante di brigata si precipita, e – coprimi, coprimi! – si carica il russo sulle spalle – pallottole che fischiano da tutte le parti – lo porta dietro un muro e ce l’hanno fatta, sono al sicuro, sono salvi”.

È Sparviero, il partigiano ragazzino.
“La mia vita è stata quella di un partigiano che ha fatto il proprio dovere, che ha fatto ciò che doveva con coraggio – lo affermo oggi in tutta sicurezza e tranquillità. Ricordo ancora le parole di mia madre, insegnante: «Non prendetelo mica in banda! Prima deve finire di studiare!»”. Ma Sparviero non ha voluto sentir ragioni.

Marta Clinco
@MartaClinco

Foto di Daniele Romano e Pietro Repisti

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Marta Clinco
Cerco, ascolto, scrivo storie. Tra Medio Oriente e Nord Africa.

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