
Aggiornato: 28/11/2015
A quasi un mese dalla conclusione del 5° Rapporto di Valutazione, il più recente e autorevole studio scientifico sul cambiamento climatico, forse qualcosa si è mosso.
Rilasciato il 2 novembre 2014 e liberamente consultabile online, il Rapporto di Sintesi è l’ultimo blocco di documenti appartenenti al 5° Rapporto di Valutazione e riassume il mastodontico lavoro di elaborazione di dati svolto nel corso degli ultimi sette anni dall’IPCC, ovvero l’Intergovernmental Panel on Climate Change.

Per assurdo, alcuni mezzi di informazione hanno trascurato i comunicati ufficiali e sostenuto la tesi dei negazionisti, peraltro piuttosto fiacca, in quanto fondata su critiche già utilizzate contro i precedenti Rapporti di Valutazione e già confutate dai climatologi negli anni scorsi.
Bisognerebbe anzi considerare che, tra il 2007 (anno della pubblicazione del 4° Rapporto di Sintesi) e il 2014, la tecnologia degli strumenti con i cui sono stati raccolti ed elaborati i dati è notevolmente migliorata; di conseguenza, le informazioni contenute nell’ultima documentazione sono molto più precise ed affidabili delle vecchie analisi.
Almeno sul web il 5° Rapporto di Sintesi ha ottenuto la meritata attenzione: svariati siti hanno pubblicato la notizia, che si è poi propagata sui social network, Twitter in particolare, dove scienziati di diversi settori, fama e nazionalità hanno dato vita a lunghe catene di condivisione, collaborando così a divulgare i risultati dell’IPCC.
Ad ogni modo, nonostante la risposta non proprio decisa del mondo nei confronti della recente analisi dell’IPCC, potrebbe essere stato proprio il dibattito sollevato dal 5° Rapporto di Sintesi a provocare un evento che, almeno sul fronte ecologico, può essere definito storico.
Lo scorso 11 novembre 2014, durante il vertice annuale dell’Associazione dei Paesi dell’Asia-Pacifico (APEC), il presidente cinese Xi Jinping e quello americano Barack Obama hanno aperto una trattativa per ridurre le emissioni di gas serra generati dai propri Paesi — responsabili da soli del 45% delle emissioni di gas serra del pianeta
Secondo gli accordi (che per ora non sono vincolanti ma consistono solo in dichiarazioni “ufficiose”), la Cina si sarebbe impegnata a portare al massimo il proprio sviluppo, e di conseguenza le risultanti emissioni, entro il 2030, data oltre la quale dovranno rimanere al di sotto del picco raggiunto in precedenza.
Xi Jinping non esclude che, per rispettare tale proposito, potrebbe decidere di aumentare la quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili fino a portarla al 20% della produzione elettrica cinese.
Dal canto suo, Obama si è imposto l’obiettivo di tagliare le emissioni USA del 26%-28% entro il 2025, un traguardo che secondo diversi media sarebbe quello più ambizioso, per via del ristretto lasso di tempo a disposizione.
Molte associazioni ambientaliste, tra cui Greenpeace, WWF e Legambiente hanno mostrato approvazione per il confronto ecologico tra le due superpotenze dell’inquinamento, ma è presto per festeggiare.
Come già detto, non si tratta di un vero accordo ma piuttosto della promessa reciproca di voler intraprendere una linea progressista nei confronti di un problema che prima d’ora ai tavoli del potere non sembrava neanche esistere.
Per gli Stati Uniti, ridurre le emissioni di quasi un terzo del totale entro dieci anni è certamente un’impresa difficile, non solo perché l’economia americana, attualmente in difficoltà, verrebbe assoggettata ad un vincolo piuttosto pesante e imminente, ma anche perché sulle scelte del governo gravano le forti pressioni delle lobby dell’energia, interessate a mantenere il sistema industriale incentrato sull’utilizzo dei combustibili fossili (di cui hanno il monopolio) e a ostacolare l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile.
D’altra parte, alla Cina viene concessa la possibilità di gestire come meglio crede il proprio sviluppo industriale per quindici anni, ma non è detto che allo scadere di questo termine la situazione ambientale possa migliorare.
Infatti, per massimizzare il proprio guadagno prima che il suddetto vincolo entri in funzione, la Cina dovrebbe cercare di investire al più presto tutto il capitale a disposizione (finché può farlo senza limitazioni) in modo da ottenerne i profitti il prima possibile e quindi reinvestirli per generare nuova ricchezza.
Tuttavia, alla data prevista, il frenetico sistema di crescita verrebbe improvvisamente assoggettato ai freni della linea politica environmental-friendly, operazione che potrebbe rivelarsi complicata poiché richiede di gestire un sistema di “capitalismo selvaggio” secondo una legge di controllo restrittiva.
Al giorno d’oggi, le emissioni annue di CO2 cinesi sono di già le più elevate in tutto il mondo (circa 8.287 miliardi di tonnellate all’anno contro i 5.433 miliardi di tonnellate all’anno dell’America).
Se per il 2030 dovessero aumentare, per esempio, del 25% (come all’incirca si stima che possa avvenire), in seguito potrebbe essere difficile riportare i flussi inquinanti verso i valori odierni e ancor di più condurli verso la decrescita.
A queste difficoltà si aggiungono quelle diplomatiche: al vertice APEC non sono mancate infatti le frecciatine, che Obama e Xi Jinping si sono scambiati principalmente su temi di politica estera.
Il tutto è stato avvolto dai polveroni sollevati dai media più patriottici, che hanno polemizzato a lungo su quale traguardo fosse più arduo da perseguire e quale Paese ne avrebbe tratto maggior prestigio.
Quasi tutti hanno riconosciuto che il vincitore uscente dalla trattativa sia la Cina, che sarebbe riuscita a “farla franca” ottenendo carta bianca per i prossimi 15 anni.
Così, ad alcuni media a stelle e strisce non è rimasto che ingoiare il rospo e rassegnarsi a criticare la leggerezza dell’obiettivo “avversario” e sottolineare la difficoltà e l’importanza di quello di cui si è fatto carico lo zio Sam.
Tenendo conto del contesto storico, tuttavia, il target più rigido dell’accordo proposto da Obama è ampiamente giustificato dalla cattiva condotta ambientale del suo Paese durante lo scorso secolo. Basta pensare infatti all’enorme produzione bellica statunitense, un’industria che già per sua natura genera un’elevatissima quantità di emissioni, allo stile di vita consumistico, che spinge il mercato verso lo spreco di risorse e l’accumulo dei rifiuti, o semplicemente alle attività di estrazione del petrolio, di cui l’America è sempre stata protagonista e fautrice.
Il grafico mostra il totale di gas serra emessi dai vari paesi tra il 1850 e il 2011 (cioè emissioni cumulate), misurati in milioni di tonnellate di CO2 equivalente. Si noti che le percentuali di Stati Uniti ed Europa costituiscono insieme più del 50% delle emissioni cumulate mondiali.
Tra gli Stati Uniti — un Paese ricco e industrializzato da più di cent’anni — e la Cina, il cui sviluppo industriale è cominciato soltanto trent’anni fa, c’è una differenza di sessant’anni di inquinamento che fa sentire il suo peso.
Le ingenti emissioni della Cina non possono essere certo trascurate, ma secondo una legge di equità che rientra nell’economia ambientale tutte le nazioni avrebbero diritto ad “inquinare il mondo nella stessa misura”: sotto questo punto di vista è l’industria USA a dover essere limitata.
Ad ogni modo, benché la strada per un vero e proprio negoziato formale tra Cina e Stati Uniti sia ancora lunga, la notizia di un primo impegno reciproco è stata accolta con grande entusiasmo da molti scienziati ed enti climatologici.
Tra questi non poteva mancare l’IPCC, il cui presidente, Rajendra Pachauri, noto per la sua visione pessimistica sulla situazione del cambiamento climatico, ha definito l’accordo «incoraggiante, ma non abbastanza coraggioso»; ha poi espresso la propria approvazione dichiarandosi speranzoso che la comunità globale segua il cammino intrapreso dalle due superpotenze e lo prenda come esempio.
Da ultimo, Pachauri ha duramente insistito sul fatto che i due obiettivi in questione sono praticamente niente rispetto a quelli di Emissione Zero fissati dall’IPCC per il 2100, che possono essere raggiunti solo attraverso una strategia di cooperazione internazionale.
Proprio questo è uno dei fattori chiave che, secondo il 5° Rapporto di Valutazione, sono necessari per rallentare il surriscaldamento globale: senza cooperazione, ogni sforzo di mitigazione diventa inefficace, e la Terra rischia di superare lo stato critico, oltre il quale il cambiamento climatico non potrà più essere fermato.