Questa (la questione del razzismo, ndr) è uno degli obiettivi che ci siamo posti all’inizio di questa campagna elettorale — di continuare la lunga marcia di chi è venuto prima di noi, una marcia per una America piú giusta, piú egualitaria, piú libera, piú umana e piú ricca. Ho scelto di candidarmi per la presidenza in questo momento della Storia perché sono profondamente convinto che non possiamo affrontare le prove del nostro tempo se non insieme — dobbiamo perfezionare la nostra unione accettando che abbiamo storie personali diverse, ma le stesse speranze; che possiamo non avere tutti lo stesso aspetto e non venire dallo stesso posto, ma che vogliamo tutti muoverci nella stessa direzione – verso un futuro migliore per i nostri figli e nipoti.1
Questo è un estratto del “Discorso sulla razza” tenuto da Barack Obama durante le elezioni del 2008. L’Obama di Hope and Change, con quella forza retorica e quella spinta carismatica che raccontavano agli elettori come gli Stati Uniti stessero voltando pagina, potessero mostrare al mondo come si costruisce un futuro migliore.
Sei anni dopo, i fallimenti di Obama sono così tanti, e per molti è l’uomo così direttamente colpevole, che è quasi difficile rinfacciargli la sua completa inutilità sul fronte della parità tra persone di colore diverso. Ci si metta in fila.
Eppure fu forse tra i piú grandi errori degli addetti alla campagna elettorale liberal dell’anno, quello di caratterizzare così chiaramente la corsa come una questione di lotta contro il razzismo. Un giochetto sporco che per fortuna andò a segno — perché la vittoria fu tutta, e solo, di Obama, ma la sconfitta sarebbe stata di un’intera comunità.
Alla vittoria contro John McCain, in preda all’euforia, alla naïveté o forse in mala fede, quella che indubbiamente fu una vittoria nella lotta al razzismo fu trasformata in qualche modo in una “Fine del razzismo.” Che bei titoli, che soddisfazione per Obama e il suo partito. Non capita tutti i giorni di fare la Storia.
Forbes arrivò a titolarlo, letteralmente. The End of Racism?, un editoriale firmato da John McWorther in cui il giornale spiegava come, evidentemente, se si era riusciti a eleggere un presidente di colore, evidentemente la ‘linea invisibile’ che separava bianchi e neri era stata finalmente superata — ed era il momento di iniziare a comportarsi di conseguenza.
Il concetto della fine del razzismo non era una fesseria di nuova concezione nemmeno nel 2008, ma da allora è rimasta in un angolo della questione politica statunitense, tirata fuori come bandierina di tanto in tanto dal GOP.
È una vecchia passione, comprensibile, quella repubblicana per la fine del razzismo. Li si vede sospirare, in televisione, quando se ne parla. “Sì, il razzismo è finito. Siamo tutti uguali.”
“Possiamo parlare d’altro?”
E questo è stato il grande fallimento razziale di questi sei anni di amministrazione nera in America. Si è parlato d’altro. Si è accettato che le cose andassero meglio, ci si è tranquillizzati beandosi della propria rinnovata justness.
Si è lasciato che i razzisti non solo potessero dire di non esserlo, si è lasciato che dicessero che il razzismo non esisteva più. Che era stato superato.
Oggi è sotto gli occhi di tutti una realtà che i due grandi partiti dell’Unione felicemente – per ragioni opposte – nascondevano. L’America del white power è qui per restare, non soltanto la sua potenza è ragguardevole, ma ha una tale certezza della propria posizione di controllo che non ha nemmeno bisogno di essere scaltra per esercitare il suo potere. In Missouri, ovviamente, non ritiene nemmeno necessario rendersi invisibile.
Questa mattina l’Europa si è svegliata alla notizia che in Missouri Bob McCulloch in nome della giuria Grand Jury ha decretato che per “testimonianze false o contraddittorie” non si sono trovate le basi per l’incriminazione del poliziotto Darren Wilson. Equivalente federale dell’italiano non luogo a procedere, il decreto del grand jury è particolarmente compromesso. Il risultato del voto interno alla giuria (nove bianchi e tre neri) è segreto. È impossibile valutare dubbi e difficoltà che la giuria possa aver trovato in fase di valutazione del caso.
È peculiare che si indichi nella mancata chiarezza di testimonianze e prove la causa della mancata procedura d’accusa — perché proprio a questo servono i processi, a distinguere tra vero e falso, tra colpevole e innocente. Quanto i dodici del gran jury hanno deciso, invece, dovrebbe sottolineare una certezza: che la morte di Michael Brown sia avvenuta entro i limiti per cui è per un poliziotto lecito scaricare un’arma su un cittadino.
È peculiare perché così tante delle prove giunte alla giuria sono parziali o difettose per chiaro offuscamento volontario. Durante gli interrogatori preparatori all’indagine, è subito emersa la mancanza di documentazione fotografica annessa ai risultati dell’autopsia.
Questa è stata la risposta:
Quando il grand jury ha confermato il proprio esito alle autorità della contea, la notizia è stata ritenuta così esplosiva da spostare l’annuncio alle 20.00 locali, contro le consuete 10 o 11 di mattina.
Announcing at night allows for rush hour traffic to clear, schools to get all children home. Protesters were going to protest, day or night
— Wesley Lowery (@WesleyLowery) November 24, 2014
Gli scontri, a detta di Lowery inevitabili, sono stati violenti come lo furono ad Agosto. E a questo punto aspettarsi conseguenze per la milizia statale di Ferguson sembra naïf quanto l’aspettativa di una improvvisa fine del razzismo.
Così finisce la parabola al contrario di Obama, che da lunghi e verbosi discorsi di motivazione si trova a dover chiedere, implorare, i propri cittadini di sopportare l’ennesima umiliazione a cui li costringe lo Stato.
Sopportare e basta. Perché questa notte la sensazione è stata che più che finito, il razzismo fosse vincitore.
@amassone
- This was one of the tasks we set forth at the beginning of this campaign – to continue the long march of those who came before us, a march for a more just, more equal, more free, more caring and more prosperous America. I chose to run for the presidency at this moment in history because I believe deeply that we cannot solve the challenges of our time unless we solve them together – unless we perfect our union by understanding that we may have different stories, but we hold common hopes; that we may not look the same and we may not have come from the same place, but we all want to move in the same direction – towards a better future for of children and our grandchildren. [↩]