Del: 9 Novembre 2014 Di: Guido G. Beduschi Commenti: 0

Il 9 novembre 1989, 25 anni fa, si aprivano i primi varchi attraverso il muro di Berlino, simbolo per eccellenza della Guerra Fredda che da quasi trent’anni divideva il cuore della vecchia capitale tedesca. Con il muro crollava la “cortina di ferro”, che dalla fine del secondo conflitto mondiale divideva l’Europa e con essa le due Germanie, a ovest la Repubblica Federale Tedesca (BRD) e ad est la Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Le due Germanie rappresentavano da quarant’anni due modelli antitetici: la DBR era una nazione democratica e capitalista ad economia di mercato; la DDR era uno stato socialista mono-partitico e collettivista, il fiore all’occhiello del blocco orientale coagulato intorno all’URSS. Queste due realtà erano il risultato dell’irrisolta “questione tedesca”.

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Con la fine della guerra in Europa, le potenze vincitrici si erano riunite a Potsdam (luglio-agosto 1945), e poi a Parigi (luglio-ottobre 1946) per stabilire concordemente il futuro dell’Europa e della Germania. Fin da principio era chiaro che la questione sarebbe stata motivo di scontro. Nel frattempo l’URSS aveva infatti portato al potere i partiti comunisti locali nei Paesi orientali occupati, forzando manu militari i meccanismi democratici per i quali le potenze occidentali si erano battute; chiara era l’intenzione sovietica di fare altrettanto in Germania.

Nel marzo del 1946, Churchill pronunciò a Fulton (USA) il notissimo discorso nel quale affermava che: «From Stettin in the Baltic to Trieste in the Adriatic an iron curtain has descended across the Continent […] this is certainly not the Liberated Europe we fought to build up. Nor is it one which contains the essentials of permanent peace».

Stalin, andato su tutte le furie, paragonò l’ormai ex alleato inglese ad un novello Hitler guerrafondaio. Inutile dire non si raggiunse una soluzione. Nel frattempo la Germania era stata divisa in quattro zone di occupazione, ognuna assegnata ad una nazione vincitrice: ad ovest la zona americana, inglese e francese (per generosa concessione); ad est quella sovietica. A sua volta anche la capitale Berlino, che si trovava nel cuore della Germania Orientale, era stata divisa in quattro settori. Questa situazione, che doveva essere solo provvisoria, si sarebbe congelata per oltre 40 anni.

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Dalla primavera del 1947, gli Alleati occidentali si mossero nella direzione di una fusione dei tre settori della Germania Occidentale in un unico stato federale (la futura BRD), e di una riforma monetaria, senza l’approvazione dei Sovietici. In tutta risposta, nel giugno del 1948 Stalin tentò di giocare di forza bloccando tutti gli accessi via terra alla città di Berlino; così facendo sperava di indurre gli occidentali ad abbandonare i loro settori della vecchia capitale. Quando ormai una nuova guerra sembra inevitabile, la questione fu risolta dagli Americani con l’allestimento di un grandioso ponte aereo. In un anno giunsero più di 200.000 aerei per rifornire la città, il piano sovietico era fallito, e nel maggio 1949 il leader sovietico dovette ritirare il blocco.
Nello stesso mese del ’49 vennero finalmente unificate le tre zone di occupazione occidentali della Germania in una repubblica federale con capitale a Bonn, e venne contemporaneamente approvata una costituzione democratica. Come diretta conseguenza, pochi mesi dopo, nasceva ad est la Repubblica Democratica Tedesca, con capitale a Pankow (sobborgo di Berlino), dotata di una costituzione che prevedeva l’esistenza di un unico partito: il Partito Socialista Unificato.

La Germania Occidentale dimostrò fin da subito un eccezionale capacità di recupero, complici anche gli Stati Uniti che rinunciarono alle riparazioni di guerra, e che estesero gli aiuti del Piano Marshall al vecchio nemico. Grazie anche a una politica economica sapiente, già nel 1951 il prodotto nazionale tedesco aveva raggiunto i livelli del 1938. Berlino Ovest diventava così inevitabilmente la vetrina dell’occidente capitalistico sul mondo socialista.

La Germania Orientale, invece, non solo si vide costretta a rinunciare agli aiuti del Piano Marshall, ma dovette anche pagare fino all’ultimo centesimo le pesantissime riparazioni di guerra all’URSS: la situazione era fin da subito problematica. Il 17 giugno 1953 a Berlino Est, quello che era nato come uno sciopero dei manovali si trasformò in una rivolta contro il governo della DDR, che presto si diffuse a macchia d’olio per tutto il Paese. I moti operai vennero prontamente soffocati nel sangue dai carrarmati sovietici, e, secondo le autorità della Repubblica Federale, furono più di 500 le vittime degli scontri, escluse le oltre 100 persone che vennero in seguito fucilate. Il giorno 17 giugno diventò subito festa nazionale nella Germania Occidentale, e a Berlino Ovest venne ribattezzata una delle arterie principali in ricordo della rivolta anti-sovietica.

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Nel 1955 la Germania Ovest entrava nel Patto atlantico, un’alleanza difensiva sotto l’egida degli Stati Uniti. L’URSS non si fece attendere, e lo stesso anno strinse con gli stati satelliti (Germania Est compresa) un’alleanza militare: il Patto di Varsavia. Nel frattempo, fino all’anno 1961, circa 3 milioni e mezzo di tedeschi orientali erano riusciti a riparare nella Germania Ovest, aggirando le restrizioni che limitavano l’immigrazione: la situazione non era sostenibile. Il 4 giugno 1961, il presidente americano John F. Kennedy incontrò a Vienna Nikita Kruscev, primo segretario del Partito Comunista e premier sovietico. Il tema principale era la questione di Berlino; i sovietici, che volevano trasformarla in città libera e smilitarizzata, diedero un ultimatum di sei mesi agli occidentali per il ritiro delle truppe, mentre gli americani, annusando i pericoli che ciò avrebbe comportato, sostenevano con forza che Berlino Ovest fosse parte integrante della Repubblica Federale.

L’incontro di risolse in un completo fallimento. Alle ore 00.00 del giorno 13 agosto 1961, la polizia della Germania Orientale iniziò a bloccare il confine con il settore occidentale, e la mattina seguente l’opera era praticamente conclusa: i soldati della DDR avevano rimosso l’asfalto dalle strade che percorrevano il confine, e avevano posizionato una rete metallica e del filo spinato lungo il confine di 156 km dei tre settori occidentali.

Fin dall’agosto del ’61, ebbero luogo le prime fughe attraverso la barriera; in 28 anni di muro, furono circa 5.000 le persone che riuscirono a fuggire, ma più numerosi furono i tentativi di fuga che fallirono anche tragicamente: tra il 1961 e il 1989 sono 136 le vittime confermate, ma secondo altre stime il numero sale ad oltre 200. Nel 1962 il muro venne rinforzato, venne posizionata un’altra rete metallica, e tra questa e la prima venne aperta una vasta terra di nessuno, la “striscia della morte”, che si allungava per tutto il confine; questa forniva ai cecchini un’ottima visuale e linea di tiro, per fermare in extremis i fuggiaschi. Nel 1965 venne eretto il primo muro in cemento lungo il confine, in seguito sostituito da uno in cemento armato e acciaio (l’ultimo) nel 1975, anno in cui venne anche scavato il fossato anticarro e vennero posizionate 302 torrette di controllo per i cecchini.
I punti di passaggio attraverso le fortificazioni erano tre checkpoint: Alpha, Bravo e, il più noto, Charlie.

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Dovendo giustificare la costruzione della barriera, la DDR affermò che si trattava di un muro di protezione antifascista (Antifaschistischer Schutzwall), insinuando così che il processo di denazificazione non era stato compiuto a pieno nella Repubblica Federale Tedesca.
Nel giugno del 1963, 22 mesi dopo la costruzione del muro, il presidente Kennedy, in visita a Berlino Ovest, pronunciò un discorso che passò allo storia: «Two thousand years ago, the proudest boast was “Civis romanus sum”. Today, in the world of freedom, the proudest boast is “Ich bin ein Berliner!”… All free men, wherever they may live, are citizens of Berlin, and therefore, as a free man, I take pride in the words Ich bin ein Berliner!».

Nel 1971 furono raggiunti degli accordi che consentivano agli abitanti della Germania Ovest di richiedere un visto per recarsi regolarmente a Berlino Est. Dall’altra parte del muro, invece, ai tedeschi orientali non era consentito entrare in Germania Ovest per nessun motivo. Durante gli anni vennero poi fatte diverse concessioni — per esempio per poter visitare i parenti per occorrenze eccezionali, o ancora per motivi di lavoro — tuttavia, rimase estremamente difficile ottenere un visto per recarsi ad ovest fino alla Rivoluzione a Piedi, o della Banane (un frutto estremamente costoso e raro nella Germania Est), nel novembre del 1989.

***

Il 18 marzo 1990 si tengono le prime ed ultime lezioni libere della Repubblica Democratica Tedesca. Da questa tornata elettorale esce un governo, guidato da Lothar de Maizière, che ha il solo e preciso compito di negoziare l’unificazione con la Germania Ovest insieme ai quattro (antichi) Alleati che avevano posto fine al regime nazista — gli USA, la Gran Bretagna, la Francia e  l’Unione Sovietica ormai sull’orlo del disfacimento.

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La pratica legale perseguita è quella di un’annessione territoriale: secondo l’Articolo 23 della costituzione della Repubblica Federale di Germania – la Grundgesetz – vengono inglobati nel vecchio stato federale i cinque landër (Brandeburgo, Meclemburgo-Pomerania Anteriore, Sassonia, Sassonia-Anhalt e Turingia) che costituivano la DDR. L’unica alternativa possibile, quella della riunificazione tra due stati sovrani, avrebbe comportato la stesura di una nuova costituzione e certamente avrebbe richiesto più tempo.

La necessità di un’azione tempestiva ha costretto a prendere decisioni importanti con grande fretta: su tutte, l’equiparazione 1:1 del marco orientale con quello occidentale, situazione che sul momento genera un accresciuto potere d’acquisto per gli abitanti dell’Est e un aumento del PIL (+5,7 nel 1990, +5,1 nel 1991) per l’area Ovest dovuta all’aumento della domanda, per poi contrarsi immediatamente sia a causa dell’aumento dell’inflazione con conseguente svalutazione del marco, sia per il crollo dell’economia orientale (PIL a -15,6 nel 1990, -22,7 nel 1991), e in particolare dell’industria, tecnologicamente arretrata e abituata alla pianificazione statale, con relativi assorbimenti delle perdite nei bilanci statali.

Per favorire la ripresa delle imprese orientali, fu quindi deciso di procedere con la loro privatizzazione tramite l’istituzione di una speciale agenzia, il Treuhandanstalt, che aveva il compito di decidere quali imprese orientali dovessero essere recuperate e quali no, di ricercare e promuovere gli investimenti nell’area orientale e di gestire gran parte dei possedimenti statali della DDR; cionondimeno le difficoltà furono molte e tali da far sì che ogni anno 4 punti percentuali del PIL Ovest facessero il percorso inverso a quello delle migliaia di persone rimaste senza un lavoro (il 5% della popolazione totale della parte orientale) e composti in larghissima maggioranza da giovani e professionisti, proprio i due generi di figure professionali che avrebbero potuto decretare il rilancio dell’economia dell’Est.

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A ciò si aggiungano le tensioni internazionali, in particolare degli altri Paesi dell’allora CEE che dicevano di temere una Germania unita per un passato che incuteva paura, quando invece erano molto più spaventati dalla possibilità di un’egemonia tedesca in campo economico – industriale in special modo – e si mobilitarono per caldeggiare l’introduzione della moneta unica e dell’Unione Europea, così da obbligare i tedeschi a discutere insieme a tutti gli altri i termini e le prospettive macroeconomiche di sviluppo.

Solo che non tutto è andato come doveva andare, per noi.

Ricorre il venticinquesimo anniversario di quell’evento che ha cambiato la Storia e ognuno di questi anni l’Ovest ha versato circa 4 punti percentuali di PIL all’anno all’Est, sotto forma di sussidi di disoccupazione o di incentivi alle fabbriche malmesse o, ancora, l’erogazione di servizi essenziali come l’istruzione e la sanità prima garantiti e gratuiti sotto il regime comunista e ora molto costosi. Alcuni obiettano – a ragione – che lo spopolamento del lato orientale ha comportato un numero elevato di manodopera a basso costo per le potenti industrie della Rühr. Eppure la Germania è diventata lo schiacciasassi che tutti conosciamo.

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Il cosiddetto Piano Hartz (l’inventore dei minijobs) del 2003 si proponeva di riuscire a reimpiegare la grande massa di disoccupati, all’epoca 3 milioni, attraverso un efficace sistema di collocamento per il quale diventava interesse del dipendente dell’agenzia interinale ricollocare il lavoratore, il quale a sua volta ha tutto l’interesse ad inviare per tempo la comunicazione del licenziamento così da non subire contraccolpi sul sussidio di disoccupazione. Questo ovviamente è un sunto del un corpus legislativo che ha segnato il secondo cancellierato Schröder, quello che ci ha consegnato la Germania così come la conosciamo oggi, e che si ricorda anche per quel patto siglato con gli industriali (per la cronaca Hartz era il CEO di VolksWagen) per aumentare la competitività delle imprese tedesche che alzava di cinque il numero delle ore lavorative settimanale – portandole così a 45 – senza dover aumentare allo stesso tempo gli stipendi.

Grazie a questa e ad altre manovre la Germania adesso è il primo Paese esportatore al mondo (davanti alla Cina), ha un disavanzo commerciale pazzesco, dal 2008 ad oggi il PIL è cresciuto del 3%, i conti pubblici sono in leggero attivo e sta imponendo la sua politica di rigore della spesa a tutta la regione europea.

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Il problema è che il gigante nasconde piedi d’argilla: innanzitutto, non si può esportare la capacità di esportare, almeno come stanno facendo ora i tedeschi: se tutti esportano e non ci sono Paesi che acquistano, chi assorbe la domanda aggregata? Tasto tra i più dolenti è la scarsissima richiesta dalle aziende di figure altamente qualificate, cosa che comporta una bassa specializzazione della forza lavoro e un conseguente basso investimento, soprattutto pubblico, nella formazione come università e ricerca e sanità, al punto tale da spendere meno della Francia e della media dell’Eurozona.

I disservizi hanno portato all’innesco di un circolo vizioso per cui le imprese investono sempre meno in casa e molto di più all’estero, come BMW negli Stati Uniti, e per combattere l’erosione dello stock di capitale — cioè il valore attribuito, in un fissato istante di tempo, a tutti i beni tangibili che contribuiscono alla produzione di merci e servizi del Paese — la Germania dovrebbe spendere ogni anno qualcosa come 100 miliardi di euro.

Come una rosa essiccata, bella ma fragile, la macchina da guerra tedesca sta mettendo in crisi un intero sistema economico, e a 25 anni dalla caduta del Muro e dalla Riunificazione tornano in mente le parole di Thomas Mann quando in una Conferenza nel 1953 davanti agli studenti dell’Università di Amburgo, li spingeva a lottare “non per un’Europa tedesca, ma per una Germania europea”.

 

Guido G. Beduschi
@gg_beduschi

Jacopo G. Iside
@JacopoIside

Credits @GettyImages, @PeterKoard

Guido G. Beduschi
Studente di Storia, da grande voglio incastellarmi. Ho una bicicletta.

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