La crisi ha lasciato sul campo molti caduti: imprese fallite, lavoratori licenziati, drastica riduzione delle assunzioni pubbliche e blocco degli stipendi sono solo alcuni di questi lasciti.
Se si volesse però indagare più a fondo un fattore positivo, può essere evidenziato in una nuova e maggiore attenzione alla spesa. In un periodo di tagli lineari ognuno cerca di guardare nel proprio orto per vedere se abbia effettivamente eliminato tutte le erbacce.
In questa ottica, far spendere 900 euro per ogni fiala di Sativex, medicinale contenente THC — principio attivo dei cannabinoidi, dei quali è autorizzata la somministrazione dietro ricetta — dev’essere sembrato un inutile spreco di risorse anche al ministro della salute Beatrice Lorenzin.
La marijuana terapeutica in Italia viene somministrata ai malati affetti da gravissime patologie quali SLA, sclerosi multipla e sindrome di Tourette, e fino ad oggi era sempre stata importata e pagata dal servizio sanitario nazionale.
Come ben si sa, qualcosa si sta muovendo: prima la petizione del senatore PD Manconi e poi, in luglio, la risoluzione di Paolo Bernini del M5S per avviare la produzione di cannabis sul territorio italiano. Come fatto notare dal ministro stesso: “Dopo l’approvazione da parte del Consiglio superiore di sanità della ricerca del gruppo di lavoro, nel 2015 arriveranno i primi farmaci. Il fabbisogno di materia prima è di circa 80-100 chilogrammi l’anno”.
La produzione avverrà nello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, guidato dal maggiore generale Giocondo Santoni, così da unire le capacità tecniche con le necessarie misure di sicurezza da applicare in questi casi.
Il primo stock di marijuana autoctona italiana sarà disponibile nel 2015 e, come ricordato dal ministro Lorenzin, i farmaci con la sostanza attiva: “costeranno meno della metà di quanto ora si spende per importare il principio attivo, circa 15 euro al grammo. La produzione abbatterà ancora di più i costi e ci garantisce la sicurezza necessaria. Non è assolutamente il primo passo per permettere l’autocoltivazione da parte dei malati”.
Ecco forse è in questo punto che ci svegliamo dal sogno e ci rendiamo conto che alla fine ci troviamo in Italia.
E invece, nella valle fertile del Coghinas, in provincia di Sassari, a settembre sono stati trebbiati sei ettari di coltivazione di cannabis sativa con una percentuale di THC inferiore allo 0,2% — per fare un rapporto, quella in commercio al mercato nero si aggira tra il 10 e il 20%. Questo basso livello del principio attivo la rende assolutamente legale, come spiegato sul sito di Assocanapa: “la coltivazione deve essere inserita nella denuncia PAC — deve essere seminata canapa di una cultivar compresa nell’elenco europeo delle varietà con tenore di THC inferiore allo 0,2%, certificata dal cartellino rilasciato dall’ENSE (Ente Nazionale Sementi Elette); deve essere riportata comunicazione della coltivazione alla più vicina stazione delle Forze dell’Ordine (Carabinieri, Polizia Finanza, Forestale); il quantitativo di seme impiegato non deve essere inferiore ai 35 kg per ettaro; l’agricoltore deve avere stipulato un contratto di coltivazione con un primo trasformatore autorizzato (Assocanapa s.r.l. è autorizzata alla prima trasformazione) e la resa in bacchetta secca ottenuta non deve essere inferiore ai 15 q.li per ettaro”.

La coltivazione è stata effettuata su terreni incolti ma ancora fertili, come spiega Francesco Peru – uno dei coltivatori nell’appezzamento di Valledoria (SS): «In questo biennio sono stati portati avanti progetti per la coltivazione mediante la tecnica dell’aridocoltura, che consente di coltivare senza l’utilizzo di acqua, fertilizzanti o pesticidi, sfruttando la straordinaria resistenza della pianta e le sue proprietà miglioratrici sui terreni. L’idea è quella di favorire una produzione biologica al cento per cento e di poter utilizzare i terreni incolti o marginali».
Il coltivato servirà per gli usi più svariati, infatti è stata ribattezzata oroverde: a gennaio è già in cantiere la ristrutturazione di una villa ottocentesca nel Comune di Ortacesus con materiali di bioedilizia estratti dal canapulo, la parte interna del fusto; sarà inoltre utilizzata per produrre olii e fibre vegetali — infatti la filiera agroalimentare può utilizzarla per la produzione di farine per la cucina o da usare pure o da integrare col grano. Un laboratorio a Carbonia ha già avviato una produzione di tagliatelle e spaghetti alla cannabis.
Come spiega lo stesso Peru: «La canapa è come il maiale per l’agricoltura – spiega entusiasta – non si butta via niente. La pianta sviluppa le foglie che poi in parte cadono quando spuntano i fiori e macerando al suolo forniscono ancora sostanze nutritive al terreno. Noi volevamo una pianta che non avesse bisogno di molta manutenzione, e con la cannabis sativa si lavora tre o quattro giorni a stagione. Per la preparazione del terreno, la semina e la trebbiatura» e aggiunge: «Non avendo acqua la pianta ha sofferto ma ha comunque prodotto 2 quintali di semi e una cinquantina di quintali di paglie. Ci abbiamo lavorato in due più qualche operatore con le macchine agricole che noi non avevamo. Ma come associazione lasceremo perdere questa tecnica perché alla fine rende la metà. Il prossimo anno partiremo con la coltivazione tradizionale, la differenza sta nell’annaffiare al massimo cinque volte nell’arco di tutta la stagione».
L’esperienza della valle del Coghinas vuole essere replicata da Assocanapa Sardegna soprattutto perché l’agricoltura è una delle risorse antiche dell’isola e sta lentamente scomparendo.
Data la facilità nella sua coltivazione e l’ampia disponibilità di territori incolti, questo potrebbe presto diventare un volano economico per una regione, ed una nazione, piegate dalla crisi e in cerca di un nuovo equilibrio per stare al mondo.
Jacopo Iside
@JacopoIside