Del: 20 Dicembre 2014 Di: Giulia Pacchiarini Commenti: 0

Martedì 16 dicembre, alle ore 10.30, un gruppo armato di matrice Talebana ha fatto irruzione, aperto il fuoco e ucciso centinaia di civili disarmati nella Army Public School, istituto scolastico di Peshwar, città situata nel nordovest del Pakistan, vicino al confine con l’Afghanistan.
L’attacco ha provocato 145 morti, in buona parte studenti tra i dieci e i venti anni.
Le forze armate pakistane nel tentativo di liberare la scuola e le cinquecento persone intrappolate all’interno, hanno ucciso a loro volta i nove miliziani che si erano introdotti nell’istituto.
In un solo giorno più di cento bambini e adolescenti hanno perso la vita a scuola, insieme ad una decina di insegnanti uccisi da colpi sparati senza un ordine preciso, giustiziati uno per uno, spazzati via da giubbotti fatti esplodere addosso ad alcuni attentatori. I feriti e i testimoni hanno raccontato di essersi nascosti dietro i corpi privi di sensi dei loro compagni, che a loro volta avevano tentato di nascondersi — come era stato insegnato nelle esercitazioni.

Secondo la rivendicazione presentata alcune ore dopo l’attacco dal portavoce del gruppo TTP, Tehrek-e-Taliban Pakistan – movimento guidato da Baitullah Mehsud e nato nel 2007 come coalizione di gruppi jihadisti attivi nelle zone tribali semiautonome al confine con l’Afghanistan – Muhammad Umar Khorasani, gli studenti sono stati scelti perché in buona percentuale figli o nipoti di esponenti dell’esercito nazionale pakistano: “Abbiamo scelto l’Army School per l’attacco perché il governo si è rivolto alle nostre famiglie e donne. Noi vogliamo farli soffrire”.

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Non è inverosimile che sia proprio la vendetta rispetto ad azioni commesse dalle milizie pakistane, il motore dell’attacco terroristico. Le affermazioni di Khorasani infatti si riferiscono probabilmente all’operazione Zarb-e-AZB lanciata nello scorso giugno dall’esercito pakistano contro i miliziani nel Nord Waziristan e nella Khyber Agency e approvata anche dai due più grandi gruppi clericali islamici (il Consiglio degli Ulema All Pakistan e il Consiglio dell’ideologia islamica) che hanno dichiarato una fatwa che tollera l’offensiva, definita a sua volta una jihad contro il terrorismo. L’operazione ha coinvolto più di 300.000 soldati e ha provocato fino ad ora 929.859 civili sfollati e l’uccisione di 1.100 miliziani secondo il Generale Asim Bajwa.

“Colpiremo ogni istituzione collegata all’esercito fino a quando fermeranno le loro operazioni e gli omicidi extra giudiziari dei nostri detenuti” prosegue poi Khorasani ”I nostri detenuti vengono uccisi e i loro corpi gettati per le strade. Abbiamo detto ai nostri uomini di non colpire i bambini piccoli anche se sono figli di militari o di leader civili”, tuttavia così non è stato.

Secondo l’analisi compiuta dalla giornalista statunitense Amanda Taub, però, la vendetta, non è l’unica ragione, anche se forse la principale. È necessario, infatti, riflettere sulla situazione odierna dei maggiori gruppi talebani, che dopo l’inizio dell’operazione Zarb-e-AZB hanno subito pesanti perdite interne, che minano non solo la stabilità dei movimenti ma anche la loro credibilità e la possibilità di acquisire nuovi sostenitori, situazioni difficilmente affrontate in passato, vista la debolezza e la saltuarietà degli attacchi governativi.
È plausibile supporre la necessità da parte del gruppo TTP di riaffermare la propria forza e la necessità di farlo tramite un attacco che diffondesse paura e dolore, che facesse rumore. Inoltre negli ultimi mesi proprio il TTP si è dimostrato diviso in più fazioni, alcune più moderate, altre più radicali, come la principale, guidata da Mulana Fazlullah, responsabile anche del ferimento di Malala Yousafzai che nel 2012 aveva provocato tanta repulsione nell’opinione pubblica.

Anche oggi, due anni dopo, l’opinione pubblica si è mobilitata in una manifestazione svoltasi a Karachi, mentre gruppi Talebani Aghani hanno denunciato il proprio sdegno e si sono dissociati da quella che hanno definito

“Un’uccisione di innocenti contraria ai principi dell’Islam”.

Le reazioni all’interno della sfera politica Pakistana, invece, hanno portato all’immediata interruzione ufficiale di ogni tentativo di dialogo tra governo e gruppi Taliban e la rimozione della moratoria alla pena di morte posta nel 2008, riportandola in vigore per reati terroristici — come quello di cui sono accusati coloro che hanno compiuto la strage all’interno della scuola di Peshawar. Poche ore dopo l’eliminazione della moratoria sono riprese le esecuzioni, che hanno dichiarato il decesso di due uomini accusati di terrorismo: il primo per un attacco contro l’esercito pachistano avvenuto nel 2009, il secondo per aver collaborato al tentativo di omicidio del generale Pervez Musharraf nel 2003.
Si tratta di una scelta – quella di vendicare morti con morti – condannata da associazioni come Amnesty International che ha dichiarato “Piuttosto che perpetuare il ciclo di violenza, il governo del Pakistan dovrebbe concentrarsi sul cuore del problema, ossia la mancanza di protezione per la popolazione civile del nord-ovest del Paese. Non c’è alcuna prova che la pena di morte abbia un particolare effetto deterrente nei confronti del crimine rispetto ad altre pene”.

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Una spirale di violenza che ha attratto a sé entità diverse, inconciliabili, che non si possono paragonare, ma che subiscono sorti simili, per caso, per scelta, per nazionalità, per estremismo, perché qualcuno ha ucciso ed è stato ucciso prima di loro. L’attentato nella scuola di Peshawar ha ammazzato studenti giovanissimi ed insegnanti, togliendo vita, realtà e quotidianità anche alle famiglie che hanno assistito alla strage e lasciando loro solo nuove motivazioni per dare origine ad altre violenze, vendette, morti e dolore. Oggi, nel lutto e nello sgomento che hanno scosso il Pakistan e il mondo, la pena di morte appare solo un modo per acquietare superficialmente gli animi spezzati, e fomentare il desiderio di violenza, senza saziarlo né spegnerlo, né tantomeno fare giustizia.

Giulia Pacchiarini
@GiuliaAlice1

Giulia Pacchiarini
Ragazza. Frutto di scelte scolastiche poco azzeccate e tempo libero ben impiegato ascoltando persone a bordo di mezzi di trasporto alternativi.

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