Uno dei punti fondamentali dello spiel politico contemporaneo è l’inesorabile demonizzazione del Sessantotto e delle conquiste della contestazione. Viene descritta e affermata un’ucronia in cui tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima dei Settanta, la politica e l’imprenditoria si piegarono alle richieste irragionevoli e viziose della classe operaia e del movimento studentesco.
Questa chiave retorica, proprio nel momento in cui il primo partito di centrosinistra d’Italia continua nella propria metamorfosi al contrario, da farfalla a bavoso bruco, si è fatta non solo incontrastata ma trasversale.
Parliamo allora di cosa è successo nel ’68, perché è successo e perché la distruzione di quei diritti è oggi inevitabile.
Il sessantotto fu una decade
1. Una serie di eventi storici specifici e consequenziali plasmarono i giovani degli anni Sessanta nella prima “generazione autocosciente” della Storia. Una massa inizialmente informe per idee e richieste ma assolutamente informata del proprio ruolo, della propria identità all’interno del sistema, e che — soprattutto — sarebbe stata in grado di organizzarsi in un movimento con responsabili, guide, progettualità.
Sebbene atomizzati in centinaia di gruppi diversi, il vero trait d’union dei movimenti della contestazione era la maturità politica. Capaci di produrre una linea unitaria, a fuoco, non potevano essere ignorati.
Il contesto in cui questi giovani crebbero non aveva precedenti storici, uniti in tutto il mondo dalla musica della Beat Generation e dalla lotta contro la guerra del Vietnam, ispirati da figure che non avrebbero semplicemente mai trovato eguali, come Che Guevara, Lenin, Martin Luther King, Mao Tse Tung e Ho Chi Minh, in un mondo di progressi tecnici e scientifici che avrebbero per sempre cambiato la vita di tutti.
2. In Italia il movimento studentesco iniziò ad organizzarsi nel 1965. Contestava i programmi in continuità con quelli del ventennio fascista e chiedeva l’estensione del diritto allo studio. A gennaio del 1966 per la prima volta in Italia un’università veniva occupata: la Facoltà di Sociologia a Trento. L’occupazione durò fino a novembre, quando l’energia del movimento si riversò nelle strade di Firenze per rispondere all’emergenza dell’alluvione.
La risposta giovanile1 da tutto il mondo e da tutta Italia, fu occasione fondamentale per unificare il movimento studentesco e per creare la rete di contatti che avrebbe portato alle manifestazioni coordinate degli anni successivi.
3. Il movimento operaio premeva sul sindacato perché si intensificasse la lotta contro il padronato. Di particolare importanza fu lo sciopero di tre mesi contro la Fiat di Torino, che finì per bloccare completamente la città. I consumi cittadini crollarono proprio in seguito alla decisione degli operai di rinunciare per dodici settimane consecutive al salario o a una quota di questo.
In quei giorni si saldarono i due movimenti, aprendo una stagione trasformativa lunga dieci anni fatta di riforme istituzionali, referendum sui diritti civili e nuove misure di welfare tra cui la pensione sociale.
Gli effetti della decade del Sessantotto furono culturali, sociali, politici — cambiarono l’Italia.
La certezza del fallimento
4. Dal 1990 al 2013 le tutele dei lavoratori in Italia sono quasi dimezzate. Secondo dati Ocse, la nozione che i nostri lavoratori a tempo indeterminato siano ultraprotetti è una favola.
Alla luce dei dati Ocse è evidente come non siano necessari interventi per uniformare la flessibilità del mercato del lavoro italiano agli standard europei2, vero mantra ripetuto ossessivamente in questi anni da un pezzo importante di classe dirigente per giustificare le riforme messe in atto nell’ultimo quindicennio, partendo dalla Treu, attraversando la Biagi e la Fornero, per giungere infine al recente decreto Poletti, i cui primi effetti si paleserranno a partire dal 2015.
5. Come abbiamo già scritto i motivi per cui l’Italia sia incapace di attrarre investimenti esteri, altra ossessione, almeno a parole, della classe politica, non dipendono dalla legislazione sul mercsto del lavoro. Il Jobs Act è una concessione alla classe dirigente piú miope e moccolosa immaginabile, una resa politica ai piagnistei di imprenditori a cui interessa solo un’altra valvola di sfogo contro lo stress della crisi finanziaria.
Dall’altra parte, del movimento studentesco restano le macerie, un pugno di giovani dalle richieste fumose, spesso irrealizzabili, e dalla linea politica confusa.
Il movimento operaio non esiste più, è presente una massa di lavoratori impegnati in un debole dissenso che in questo articolo continueremo a chiamare movimento — seppur non in maniera appropriata, soprattutto su scala nazionale.
Dai recenti episodi di lotta, a Piombino e a Terni è emersa chiara la richiesta di un piano industriale, ma i sindacati non sono stati capaci di allargare lo scopo a livello nazionale.
6. La decade del Sessantotto ha portato il cambiamento che ha trasformato l’Italia da Paese post-fascista a quello in cui viviamo.
Costretto a difendere i diritti basilari del lavoro, il movimento non si è mai trovato in una posizione più delicata di quella attuale: dover scansare quotidianamente accuse di difendere lussi e non necessità. Indebolito e frammentato non può spingere la sinistra istituzionale verso le politiche necessarie a difendere e tutelare il mondo del lavoro, dimenticando comunque le ambizioni e i risultati degli anni ’70. È così che effettivamente non solo si condannano alla povertà, all’incertezza, e alla paura milioni di persone, ma si garantisce che non si ripeta un fenomeno di mobilitazione come quello iniziato cinquant’anni fa.
7. Incapaci di esprimere un programma politico unitario, comprensibile e agibile, è garantita l’inefficacia di qualsiasi impegno da parte del movimento studentesco, operaio e della sinistra oltre-piddina. La loro stessa presenza permette a forze come il Pd di arroccarsi sulle proprie posizioni, e agli occhi di molti autorizza operazioni repressive da parte dello Stato.
Non ci si può che chiedere se debbano del tutto impegnarsi, e manifestare, e contestare.
Qui si giunge a una questione che interroga profondamente la coscienza del politico come quella del cittadino – una domanda a cui ogni figura di alto profilo impegnata nella lotta dovrebbe sapersi rispondere: vale la pena combattere quando il fallimento è certo?
8. Sì.
@amassone