«Raramente i giornalisti sono stati uccisi in nome di una così barbara propaganda».
Così commenta la francese RSF, Reporters Sans Frontières — o RWB, Reporters Without Borders — in merito ai risultati dei round-up “Abuses againsts journalists” e “Press Freedom Barometer”, pubblicati a metà dicembre, in riferimento ai dati raccolti durante l’anno ancora, per poco, in corso. Protagonisti, giornalisti e libertà di stampa nel mondo.
I risultati sono tutt’altro che confortanti. Per quanto riguarda i giornalisti uccisi (in qualsiasi situazione fosse in qualche modo legata allo svolgimento del proprio lavoro), il primato è tristemente siriano, con 15 assassinii solo nel corso dell’ultimo anno; seguono Palestina, Ucraina, Iraq, Libia, e il “resto del mondo”, per arrivare a un totale di 66 morti-uccisi. Com’è evidente, la maggior parte (precisamente, i due terzi) di questi casi si concentra nell’area del Medio Oriente, soprattutto nelle war zones: Siria, appunto, territori palestinesi, striscia di Gaza, Ucraina orientale.
Inoltre, il numero delle giornaliste donne assassinate è raddoppiato, ma non pare un dato poi così rilevante, in un quadro già di per sé disastroso.
Si ricorda il trentaseienne Raad Azaoui, cameraman iracheno per Sama Salah Aldeen TV, giustiziato pubblicamente il 10 ottobre a seguito di un mese di sequestro insieme ad altri tre civili, tra cui il fratello, nella città irachena di Samara, sotto il controllo dell’IS, con il quale si era rifiutato di collaborare; ma si ricorda, ancor prima, il caso che più ha fatto scalpore: l’assassinio dell’americano James Fooley. L’efferata decapitazione del reporter — quarant’anni, corrispondente per GlobalPost e AFP — veniva ripresa nel video che sconvolse gli USA, diffuso dall’IS il 19 agosto, in cui peraltro si minacciava l’esecuzione di un altro ostaggio cittadino statunitense, il giornalista Steven Stotloff, rapito in Siria nell’estate 2013. Il video della seconda decapitazione sarebbe stato messo in rete esattamente due settimane dopo.
Ma i numeri si alzano quando si parla di reporter rapiti. E infatti l’indice registra un incremento preoccupante del 37%: ad oggi, ben 119 giornalisti professionisti sono ancora tenuti in ostaggio (l’anno scorso erano “solo” 87), e i casi si concentrano, ancora una volta, nella zona del Medio Oriente e in Ucraina, dove il fuoco non è mai cessato, con 33 kidnapped — 29 in Libia, 27 in Siria, 20 in Iraq. Rapimenti dovuti soprattutto all’offensiva dell’IS negli stati siriano e iracheno; ai continui, durissimi scontri tra milizie in Libia; alla sempre più difficile e delicata situazione ucraina. Le vittime sono soprattutto reporter locali: i 20 ostaggi in Iraq sono tutti iracheni.

Stabile invece il numero di giornalisti ad oggi detenuti nelle carceri del mondo. 853 sono stati gli arrestati — in Ucraina poi rilasciati in seguito. Di fatto, non c’è ormai differenza di trattamento tra professional e citizen-journalists: la Cina si colloca prima per numero di incarcerati in entrambe le categorie e, come nel passato 2013, è ancora seguita da Eritrea, Iran, Egitto e Siria con, rispettivamente, 29, 19, 16 e 13 giornalisti in carcere. In Vietnam, la maggior parte dei detenuti sono citizen-journalists, dal momento che nel Paese sono sostanzialmente assenti i media tradizionali indipendenti. In Arabia Saudita, la legge che regola il cyber-crime va a colpire indipendentemente entrambe le categorie: il saudita Raef Badawi, vincitore del Reporter Without Borders Press Prize del 2014, è detenuto dal 2012 con l’accusa di aver “insultato l’Islam” attraverso la diffusione di libere idee dal suo sito web. È stato condannato a dieci anni di reclusione.
+106% sul numero di giornalisti che si sono trovati costretti ad abbandonare il proprio Paese per via della censura soffocante, per le difficioltà riscontrate nel svolgere il proprio lavoro, perché preoccupati per la propria incolumità personale. Accade principalmente in Libia, con un picco di 43 reporter esodati, e in Siria, Etiopia, Iran, Eritrea.
A conti fatti, le regioni più pericolose per i giornalisti restano senza dubbio tutti i territori controllati dall’Islamic State: Iraq e Siria sono ormai soggetti ad una dittatura del terrore anche per quanto riguarda l’informazione. I giornalisti sono tenuti sotto controllo e monitorati costantemente — spesso catturati, rapiti e brutalmente giustiziati. Il regime ha creato veri e propri buchi neri nell’informazione: è il caso della città di Mosul, 400 km a nord-ovest di Baghdad, dalla quale molti reporter sono fuggiti a causa di paura o rappresaglie. Nella provincia siriana di Deir Ezzor, l’IS ha imposto una serie di undici regole da seguire per i giornalisti; il caposaldo recita: “giurare fedeltà al Califfo Abu Bakr al-Baghdadi”.
Nell’area Est della Libia, il caos e la guerriglia incessante tra milizie nemiche che attanagliano la regione hanno degenerato una situazione già precaria, per cui ormai
aggirarsi con una videocamera, una macchina fotografica, una press card non è solo estremamente pericoloso, ma richiede un coraggio che spesso è ricompensato solo dall’ennesima morte, per quelle strade di nessuno che non trovano mai giustizia.
E ancora paradigmi simili per Antiochia, Pakistan, Colombia; Donetsk e Luhansk in Ucraina.
Lo scenario messo in luce dal rapporto di RSF registra, in sostanza, sia i sintomi sia gli effetti disastrosi e drammatici dell’attacco che la libertà d’informazione e i loro garanti stanno subendo a livello mondiale, vittime anch’essi dei numerosi conflitti che stringono diverse aree del pianeta in una morsa dilaniante. È necessario agire, agire ora. Non vorremmo leggere il prossimo rapporto, a fine 2015, e capire con orrore che nulla è cambiato.
Marta Clinco
@MartaClinco