Del: 11 Gennaio 2015 Di: Marta Clinco Commenti: 2

Come accade per ogni governo, per ogni stato che si rispetti, anche per quello Islamico dell’Iraq e del Levante il tempo dei bilanci è arrivato, e si fanno ora previsioni per il futuro. Le breaking news dal Califfato non lasciano dubbi: certo il 2014 si è chiuso in positivo, se il budget approvato e messo in campo per quest’anno si aggira  attorno ai $2 miliardi, con un surplus previsto di circa 250 milioni (dato probabilmente sottostimato). Pare che i piani di investimento per l’ingente somma prevedano sostegno a poveri e disabili, a donne rimaste vedove, a orfani e famiglie di coloro che hanno perso la vita a causa dei bombardamenti nemici (iracheni e coalizione US). Ma non solo: si parla anche dei servizi di base, dell’educazione e della sanità, di smaltimento rifiuti, di infrastrutture; quella normale, pubblica amministrazione. Alla voce “extra”, invece, armamenti e stipendi per i miliziani – guadagnano tra i $500 e i $600 al mese – con la volontà di continuare a finanziare l’efferata guerra all’Occidente.

IS_earnings

Questo quanto affermato da Naji Abdullah – leader tribale della città di Mosul, nuova Mecca conquistata dall’IS situata nel nord dell’Iraq – e dallo sceicco Abu Saad al-Ansari – tra le autorità religiose attualmente più radicate in città – nelle ultime dichiarazioni riportate da al-Araby al-Jadeed.

Ciò che più ha scosso i media internazionali, fatto sorridere e poi gelato il sangue nelle vene degli economisti, è la notizia dell’apertura dell’Islamic Bank, la banca dello Stato Islamico, con sede proprio a Mosul. Del resto, era già stata annunciata lo scorso novembre la volontà dell’IS di battere moneta propria: troviamo il comunicato ufficiale anche sul primo numero di Dar al-Islam, il magazine di propaganda jihadista in lingua francese inaugurato proprio a ridosso del nuovo anno, facilmente reperibile sul web.

Una moneta tutta nuova, dunque; a tal punto che risulta davvero poco chiaro come potrebbe innestarsi nelle fitte trame di quel mercato — quello mondiale, quello vero — da cui l’IS innegabilmente in ampia parte dipende — almeno, dal punto di vista economico. Una banca vera e propria che — affermano, ma ancora mancano conferme persino sulla sua effettiva esistenza — è già in grado di concedere prestiti, insieme alla possibilità di sostituire le banconote non più accettate oppure danneggiate.

C’è chi si dice stupito, chi preoccupato, scettico, divertito. Basta un momento perché quella patina d’assurdo scompaia, se si riflette sul fatto che ci troviamo di fronte ad un passaggio piuttosto obbligato o quantomeno prevedibile, specie per un’organizzazione terroristica che mira a farsi Califfato, e quindi Stato, e ad acquisire autorevolezza anche attraverso la continua, disperata ricerca di legittimazione, su ogni piano: sociale, culturale, politico; ora, anche economico.

Ma da dove arrivano tutti i soldi dello Stato Islamico?

Secondo gli ultimi dati diffusi a settembre dalla BBC, l’IS esporta più di 9.000 barili di greggio al giorno, con un guadagno al netto di $350.000. Tuttavia, se si comprendono anche tutte le altre entrate, la cifra magicamente raddoppia (dato confermato da Masrour Barzani, capo dell’intelligence curda e del consiglio di sicurezza regionale del Kurdistan). Questo avviene perché, attraverso vie di contrabbando ormai più che consolidate, il Califfato muove indisturbato quei capitali, forte del benestare di troppi occhi che fingono di non vedere, sollecitati forse dal fiorente sistema di bakshish (bustarelle), usanza già ben radicata nella regione.

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Sarebbe comunque erroneo — eppure pare questa la tendenza — fare una stima dei bilanci dell’IS basandosi quasi esclusivamente sui proventi raccolti dal traffico di petrolio: è questa solo una delle tante colonne portanti di un sistema più ampio e ramificato. La sua economia si basa sì sulla vendita illegale di greggio, ma non solo. Molti dei finanziamenti sono sempre giunti dai grandi signori del Golfo (principi e nababbi, imprenditori, famiglie di sceicchi facoltosi), e altri ancora da Qatar, Arabia Saudita e Turchia, passando per il privilegiato canale siriano, benché gli intermediari si trovino disseminati lungo tutta l’area del Medio Oriente. È in continuo sviluppo anche il mercato nero che gravita attorno a reperti archeologici confiscati; i riscatti dei rapimenti costituiscono una buona fonte di guadagno, e lo stesso le generose donazioni dei privati simpatizzanti elargite dietro il fantoccio degli aiuti umanitari, le estorsioni e le tasse arbitrariamente imposte a civili trattati come sudditi, tra cui la zakat, la “tassa per aiutare i poveri”. E ancora royalties, bottini delle forze di sicurezza nemiche conquistati nelle basi militari, raid su convogli che trasportano ingenti quantità di denaro o salari, per lo più dei dipendenti pubblici. Oltre a ciò, tra Mosul, Tikrit, Fallujah e 13 altre città della zona, sale a 62 il numero delle banche che finanziano più o meno dichiaratamente l’IS.

Senza tutto questo sostegno, questo benessere, l’organizzazione non avrebbe certo potuto espandersi così rapidamente. L’autodichiarazione di sé come Islamic State, la presa di distanza da al-Qaeda, è avvenuta solo nel marzo 2013, in coincidenza con l’espansione dal grembo iracheno alla vicina Siria, dove pochi mesi dopo avrebbe preso il controllo di Raqqa, una delle principali città del Paese. L’ultima grande conquista è la presa di Mosul, seconda città dell’Iraq, e risale a giugno 2014. Alla fine dello stesso mese, il Califfato si sarebbe già autoproclamato ufficialmente. Controlla un’area in cui vivono tra i 6 e gli 8 milioni di persone (dato probabilmente sottostimato). Può ormai contare su più di 30.000 uomini, 15.000 dei quali sono foreign fighters (dato probabilmente sottostimato).

Propaganda? Pubblicità, marketing?

Alcuni economisti e studiosi esperti di gruppi armati attivi in Medio Oriente descrivono la recente decisione dell’IS di aprire una Banca Islamica e dichiarare il proprio budget non solo come illogica e irrealistica, ma come parte di una più ampia e massiccia azione di propaganda, di rafforzamento dell’immagine sempre più integra e istituzionale del Califfato da sovrapporre a quella di uno Stato come gli altri, uno Stato normale. A proposito, ricordiamo l’ultimo video diffuso dall’IS proprio a inizio 2015, in cui il reporter britannico John Cantlie, ostaggio dal novembre 2012, decanta la vita a Mosul come quella di una normale, tranquilla cittadina dove, nonostante tutto, “life is business as usual”. E proprio di questo principalmente si tratta: business, denaro, affari e traffici illegali. Affari che consentono ad uno Stato – benché autoaffermato, non riconosciuto – di sopravvivere e, anzi, di crescere ed espandersi capillarmente.

In ogni caso, ciò non significa che l’IS sia in grado di stabilire un sistema economico proprio e indipendente e, più di tutto, di farsi carico delle forti crisi – economiche e non solo – dell’area che controlla. Stati Uniti e Gran Bretagna continuano a fare pressioni sui Paesi europei perché smettano di pagare gli ingenti riscatti richiesti per gli ostaggi; i raid aerei di Stati Uniti e coalizione non si sono mai fermati, e l’obiettivo resta quello di colpire le raffinerie petrolifere siriane controllate dallo Stato Islamico; si riflette inoltre su metodi efficaci per fermare l’avanzata del gruppo via terra, militarmente. Tuttavia queste azioni congiunte non paiono aver raggiunto, ad oggi, i risultati sperati.

Le alternative sono poche: colpire le fonti di guadagno dell’IS pare comunque l’unica, vera soluzione efficace e l’unica speranza di fermarne l’avanzata rapida e decisa. Tuttavia, finora, IS sembra disporre di tutto il denaro necessario a pagare ciò di cui ha bisogno.

Marta Clinco
Cerco, ascolto, scrivo storie. Tra Medio Oriente e Nord Africa.

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