Del: 21 Gennaio 2015 Di: Stefano Colombo Commenti: 1

Israele possiede la bomba atomica. La Palestina no. Stando ai sussurri nei corridoi delle cancellerie di Washington e Tel Aviv adesso i palestinesi ne hanno per le mani una: è la Corte Penale Internazionale, il tribunale per crimini di guerra con sede all’Aja. Dal primo aprile la Palestina inizierà a farne parte e potrà accusare Israele di aver commesso reati in Cisgiordania e a Gaza. La Corte – nonostante la Palestina non sia ancora iscritta in modo formale – ha già aperto un’indagine preliminare sulle azioni israeliane nella West Bank dopo il 13 Giugno 2014. Il procuratore Fatou Bensouda ha precisato che non è un’inchiesta, ma semplicemente un ”sondare il terreno” per capire se esistano gli estremi per procedere col processo vero e proprio.

Nei tragici giorni successivi al 13 giugno, quando tre ragazzi israeliani vennero trucidati da alcuni cani sciolti palestinesi, Israele condusse azioni armate in Cisgiordania, uccidendo o arrestando in modo sommario decine e decine di palestinesi. Questa operazione, detta ”Brother’s keeper”, venne seguita circa un mese dopo da ”Protective Edge”: un mese di bombardamenti su Gaza e di ulteriori privazioni sulla popolazione dell’enclave, con un bilancio tra i cittadini di più di duemila morti, in larga maggioranza civili. In teoria, sarebbero possibili indagini a partire dal novembre del 2012 – data in cui la Palestina è diventata membro osservatore all’ONU – ma il Presidente Mahmoud Abbas Abu Mazen sembra intenzionato a focalizzare l’attenzione delle indagini su questi due avvenimenti più recenti.

operazione "Brother's keeper"
operazione “Brother’s keeper”

Israele, come gli USA, non aderisce alla Corte Penale e dunque non può essere condannato in quanto Stato. A essere chiamati a giudizio sarebbero solo i suoi singoli cittadini per i crimini commessi sul territorio palestinese: ad esempio, potrebbero venire arrestati all’estero i cittadini israeliani residenti nelle colonie ebraiche nei territori occupati, o il Ministro per gli insediamenti Uri Ariel.
L’iscrizione alla Corte è una tappa importante della politica del Presidente Abu Mazen, che sembra essere deciso a correre lungo la strada diplomatica per far valere le ragioni del proprio paese. Abu Mazen ha presentato la domanda d’iscrizione alla Corte a Capodanno, il giorno dopo che L’ONU aveva respinto la risoluzione secondo la quale Israele sarebbe stato costretto a sgomberare completamente dai territori occupati entro due anni. Negli scorsi mesi, molti paesi europei hanno riconosciuto la Palestina come Stato legittimo e sovrano. Che la strada diplomatica possa essere quella giusta lo conferma anche la reazione stizzita del Capo del Governo israeliano Benjamin Netanyahu.
Venerdì scorso Netanyahu ha commentato così l’apertura del fascicolo: “È assolutamente scandaloso che pochi giorni dopo che i terroristi hanno massacrato ebrei in Francia, la Corte stia aprendo un’inchiesta contro lo stato degli ebrei.” Aveva già minacciato una ”risposta sionista” – la creazione di nuovi insediamenti intorno a Gerusalemme per isolare definitivamente la parte Nord da quella Sud dei territori occupati – ma, soprattutto, questo mese ha congelato le tasse raccolte in Cisgiordania.

Israele infatti contribuisce ancora a riscuotere le tasse in quella tormentata regione, girando poi al Governo palestinese il ricavato che gli spetta. I frutti di questa operazione costituiscono due terzi delle entrate dello Stato di Palestina e sono vitali per il suo funzionamento: in totale, ogni mese Israele eroga al fisco dei vicini 127 milioni di dollari. Questo Gennaio, come rappresaglia, il Governo di Tel Aviv ha congelato metà dei versamenti, impedendo così al presidente Abu Mazen di pagare lo stipendio a 160.000 dipendenti pubblici.

I palestinesi si sono già calati forse con un po’ troppa foga nello scontro giuridico, definendo anche il blocco israeliano ”un crimine di guerra”. Certo è che le reazioni internazionali allo scippo sono tutte – se non di sdegno – quanto meno di disapprovazione verso una mossa che è difficile spiegare sul piano giuridico e che risponde non alla logica della giustizia ma a quella del ricatto. Anche all’interno del paese in molti hanno criticato la chiusura dei rubinetti decisa da Netanyahu (che, ricordiamolo, è in campagna elettorale), a cominciare dal Presidente della Repubblica Reuven Rivlin: non pare una buona idea far fallire uno Stato sì fragile, ma che è pur sempre un interlocutore, da non far sprofondare nell’anarchia.

Netanyahu ha ventilato la possibilità di iscriversi a sua volta alla corte dell’Aia per denunciare per crimini di guerra i plaestinesi. Ma al di là delle dichiarazioni, Israele sembra che stia facendo di tutto per non essere trascinato a giudizio o comunque davanti a un’autorità che lo metta di fronte alle proprie responsabilità. Se davvero Israele – e Netanyahu – avessero la coscienza pulita, perché avere paura di un giudizio di un giudizio esterno e super partes? Già la risoluzione che espelleva Israele dai territori occupati, nonostante il suo stop fosse prevedibile, aveva fatto venire i sudori freddi a Tel Aviv: è stata fermata in extremis da un inatteso voto della Nigeria, altrimenti gli USA avrebbero dovuto esercitare il loro diritto di veto. E nonostante si fossero dichiarati contrari alla risoluzioe in quanto ”unilaterale”, non sarebbero stati certo entusiasti di essere costretti a fare una mossa come l’imposizione del veto, carica di ripercussioni pesanti sulla loro già incerta politica mediorientale.

Obama-Nethanyau

I rapporti dell’amministrazione Obama con Netanyahu sono glaciali, ma gli USA rimangono comunque il più fedele alleato d’Israele. Il Governo israeliano sta facendo pressioni sul Congresso – ormai a maggioranza repubblicana e dunque ancora più filosionista – perché tagli i 400 milioni di dollari che ogni anno eroga come fondi umanitari alla Palestina. Un funzionario americano dell’ONU, subito dopo la notizia dell’adesione alla Corte, ha ammonito i palestinesi con una minaccia velata: ”Non dovrebbe essere una sorpresa che ci saranno implicazioni per questo passo”. Una dichiarazione inquietante. E un po’ unilaterale.

Stefano Colombo
@Granzebrew

Stefano Colombo
Studente, non giornalista, milanese arioso.

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