Francesco Floris
@Frafloris
«We agreed that we disagree». Con queste parole quasi “giocose” – in un contesto che di ludico ha veramente poco – si è concluso il vertice fra il Ministro delle Finanze del governo tedesco Wolfgang Schaeuble e il suo parigrado ellenico, il neo-eletto Yanis Varoufakis — ex professore di Teoria economica all’Università di Atene, un volto da duro di Hollywood che nelle ultime settimane gli è valso notorietà e caricature sui social network di mezza Europa.
Nulla di fatto: il tour de force intrapreso da Varoufakis nell’ultima settimana – con tanto di pellegrinaggi nelle principali capitali del continente e incontri bilaterali nei dicasteri delle Finanze e del Tesoro, dove s’intesse la schizofrenica politica economica europea – si conclude con un risultato molto prossimo allo zero.
Berlino era necessariamente la chiave di volta, il luogo dove strappare qualche margine di flessibilità e intavolare una discussione sulla nuova rinegoziazione del debito greco — punto che si trova al centro del programma elettorale con cui Syriza ha sbancato ai seggi e senza il quale tutte le altre promesse verranno meno. Ma Schaeuble, che nell’Eurozona si è guadagnato la nomea di “falco rigorista”, non ha voluto sentire ragioni. No a misure temporanee in assenza di un programma di governo definito e presentato al Parlamento greco; no a finestre temporali durante le quali instaurare un dialogo con i creditori internazionali; in buona sostanza, no al “commercio del tempo” e, seppur con toni cordiali nel rispetto delle prassi istituzionali, Schaeuble è parso voler dire, di fatto, “avete voluto la bicicletta e adesso pedalate”.
Dal canto suo Varoufakis ha già “cacciato” la troika. I greci sono stanchi e provati da quattro anni di lacrime e sangue, lo smacco di ritrovarsi per le mani un Paese sostanzialmente commissariato non è più sopportabile; il ministro ha fatto sapere che dal 28 febbraio nelle casse di Atene non confluiranno più i soldi dei due programmi di bailout voluti da Commissione Europea, Bce e Fondo Monetario Internazionale. Si parla dei famosi 240 miliardi di euro che in buona sostanza sono serviti a ripianare il buco nero delle banche greche, restituendo a creditori internazionali privati – su tutti, dunque, ai sistemi creditizi tedesco e francese – gli ingenti debiti accumulati dalla fine degli anni ’90 in poi.
Non arriveranno più soldi. In cambio, la Grecia si riprenderà uno straccio di “sovranità politica”, sancendo il principio per cui le “riforme” fatte in questi anni sono sufficienti: da oggi spetta all’esecutivo di Tsipras dare un vettore politico all’azione di Governo.
Non è un’idea folle come possa sembrare, o come spesso viene raccontata: dal 2013 infatti la Grecia ha raggiunto un avanzo primario di bilancio per circa l’1% del Pil — la stima cambia a seconda della metodologia usata, ma la sostanza rimane la stessa. Significa che, al netto delle spese per interessi sul debito, la differenza fra quanto il governo centrale introita in termini di gettito fiscale e le spese sostenute per sanità, istruzione, stipendi del settore pubblico, forze dell’ordine e le altre voci di uscita in bilancio, quella differenza dà un numero positivo.
Procedendo comunque “con i piedi di piombo”, questo potrebbe significare che se una mattina i governanti greci dovessero svegliarsi di cattivo umore, potrebbero probabilmente decidere di mandare un telegramma a Bruxelles e Francoforte, con scritto: “È stato un piacere, arrivederci e grazie”.
Ma le buone notizie, per il momento, finiscono qua.
La stessa mattinata, giovedì, dell’incontro Schaeuble-Varoufakis un’altra mattonella è caduta sul cranio di Tsipras e compagine.
Il Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea ha fatto sapere che a partire dall’11 febbraio non accetterà più titoli di stato ellenici come garanzia collaterale per permettere alle banche greche di approvvigionarsi di liquidità. Era già una forzatura questa operazione, visto che i regolamenti interni all’istituto di Francoforte vietavano l’acquisizione di Bond che non possedessero alcuni requisti di “rating”, di cui dal 2010 la Grecia è sprovvista. Allo stesso tempo, però, aveva garantito negli anni la solvibilità delle stesse banche greche.
Il rischio, nemmeno troppo remoto, è che nel giro di poche settimane le banche vedano dissanguarsi le proprie casse con conseguenze non proprio rosee.
Ma se con la mano destra Mario Draghi “chiude i rubinetti”, con la sinistra prova a mettere una pezza, probabilmente l’ultima di cui dispone, sulla a dir poco precaria situazione in Eurozona: è stato infatti attivato un programma speciale e discrezionale della Bce dall’acronimo Ela (Emergency Liquidity Assistance) per continuare a rifornire il sistema creditizio, ma è un programma dalle gambe particolarmente instabili, in primo il luogo perché il rischio ricade interamente sulla Banca Centrale Nazionale e in secondo luogo perché può essere sospeso in qualsiasi momento durante una normale riunione del board della Bce, lasciando gli istituti in sofferenza a corto di ossigeno. Se il Quantitative Easing con cui i commentatori si sono riempiti la bocca nelle ultime due settimane è stato realizzato con lo sputo (80% del rischio in capo alle singole banche centrali) il programma di Ela è realizzato con una sostanza ancora più fragile.
Di fatto, a tre anni dal discorso più famoso in campo economico del decennio, il noto «Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the Euro. And believe me, it will be enough» con cui Mario Draghi nel 2012 stoppò la tempesta finanziaria sui debiti “sovrani” dei Paesi periferici e di fatto mantenne in vita l’Eurozona, oggi ci troviamo nella situazione in cui si scopre che “whatever it takes” non significava affatto “tutto il necessario” ma semmai “tutto il necessario fino a dove mi è concesso spostarmi”.
All’epoca i mercati credettero alle frasi del Governatore della Bce e finirono le pressioni speculative sui titoli greci, italiani, portoghesi e spagnoli — oggi basterebbe un sassolino nello stagno per scatenare uno tsunami.
Molto semplicemente perché la Bce non può fare “tutto il necessario”. È stata pensata e costruita per non poterlo fare; ad esempio non può direttamente acquisire titoli mirati dei Paesi in difficoltà – quella che in gergo si chiama “monetizzazione” – pratica abbandonata nel percorso di integrazione europea da tutte le banche centrali.
In Italia questa decisione venne presa dal democristiano Ministro del Tesoro Andreatta nel 1981, in un acceso scontro che passò alle cronache giornalistiche come “la lite delle comari” con il socialista Rino Formica, Ministro delle Finanze, che portò alla separazione di Bankitalia dal Tesoro, da cui prima dipendeva. Nei suoi scritti, Andreatta sostiene di aver preso quella decisione per permettere a una nuova Bankitalia “indipendente” di attuare politiche monetarie che combattessero l’inflazione “petrolifera” (derivante dal prezzo del petrolio) importata durante tutti gli anni ’70 e in specie dopo la rivoluzione iraniana del ’79.
Oggi che l’Europa è in deflazione, il principio dell’indipendenza della Banca Centrale, iscritto prima ancora che nei trattati nel dna delle costruzione europea stessa, assomiglia molto a una corda insaponata attorno al collo dell’impiccato, prima che la botola gli si apra sotto i piedi.
Per tornare alla Grecia, sulle tavole imbandite di Atene, Berlino, Bruxelles e Francoforte, si sta giocando quella che sembra l’ultima mano di poker di una partita che ha già fatto diverse vittime.
Fra un mese sapremo chi sta bluffando e chi è deciso ad andare fino in fondo, ma se la situazione rimane all’interno di un limbo di inamovibilità è probabile che la premiata ditta Tsipras-Varoufakis sarà costretta a una puntata eclatante: in assenza di margini di trattativa, o tradiscono il proprio programma elettorale o se ne vanno dall’Euro.
Di lasciare la moneta unica hanno visibilmente paura, sebbene Syriza contenga al suo interno correnti (al momento minoritarie ma comunque cospicue) che chiedono da anni l’abbandono dell’Eurozona.
Ma paradossalmente lo scenario che più terrorizza sarebbe quello in cui il proprio programma elettorale si trasforma in carta straccia e le aspettative – che hanno assunto nelle ultime settimane le sembianze del messianico – del proprio popolo vengono tradite in un batter d’occhio.
Se questo avvenisse è facile immaginare l’impennata dei consensi del partito di Alba Dorata – i neonazisti con i leader in carcere – che però hanno il drammatico vantaggio di non essersi mai “sporcati le mani” con l’azione di Governo.
Slittamenti di consenso da posizioni radicali di sinistra a estremismi di destra li abbiamo già osservati nella storia europea durante i decenni più oscuri nel Novecento: prima delle follie totalitarie di matrice fascista si assiste, come in un deja-vu, a “bienni rossi” pronunciati in varie lingue. Il finale è quasi sempre lo stesso.
Urge anche ricordare come pericolosi leader in carcere (uno su tutti) una volta usciti abbiano catalizzato l’intero malcontento delle fasce più deboli della popolazione: avveniva nella Germania del ’31 martoriata dal Trattato di Parigi e dalle politiche di austerità del cancelliere Heinrich Brüning , può avvenire anche in Grecia in forme diverse.
E quando in Grecia arrivano i nazisti, la storia c’insegna che il problema non è più degli ateniesi o degli spartani.