
Stefano Colombo
@Granzebrew
C’è un Paese in cui sono illegali i pupazzi di neve e alle donne non è consentito guidare perché ”fa male alle ovaie”. Il Paese in questione è una teocrazia feudale, tra i più ricchi e potenti del medioriente. Comprendere come funziona e quali sono i suoi scopi è fondamentale per capire tutte le dinamiche della regione.
È l’Arabia Saudita.
La storia saudita moderna ha un suo Anno Zero: è il 1744 e in un villaggio del Najd, regione al centro del futuro Paese, l’emiro locale Muhammad Ibn Sa’ud incontra Muhammad Wahhab. Quest’ultimo è il fondatore di una corrente musulmana che prenderà il nome da lui, il wahhabismo appunto. Secondo Wahhab, l’Islam deve tornare alla purezza delle origini, rigettando tutto ciò che è non-islamico, innovativo o politeistico. Sa’ud e Wahhab vanno subito d’accordo e stringono un patto ideale per l’affermazione di questa ”controriforma” nel piccolo emirato.
Wahhab sceglie il cavallo giusto perché – con alterne vicende – in due secoli la famiglia Sa’ud fonda un impero, l’Arabia Saudita: il pronipote di Muhammad, Abdel Aziz (1876-1953), nei primi anni del 1900 conquista gran parte della penisola arabica a filo di spada e wahhabismo, grazie alla decadenza degli acerrimi rivali ottomani, al più che esplicito sostegno britannico e alle milizie islamiche Iqwan. Con la seconda guerra mondiale, l’influenza britannica nella zona si affievolisce. Non ci sono più gli ottomani da cui guardarsi, ma c’è altro che attira mire straniere sul Paese: il petrolio, che negli anni Trenta viene scoperto in quantità enorme. Gli equilibri mondiali si stanno spostando e Abdel Aziz nel 1945 si incontra con il Presidente americano Roosevelt, per stringere un’alleanza che dura ancora oggi. Dopo la morte di Abdel Aziz, nel 1953, la corona passa sulle teste dei suoi figli, uno dopo l’altro: l’ultimo, Salman, è entrato in carica meno di un mese fa ed è nato nel 1935.
L’Arabia Saudita, per molti versi, è ancora quella di Abdel Aziz: una monarchia dispotica sorretta da un clero fanatizzato e una nobiltà tribale che si spartiscono il potere e le immense ricchezze derivate dal petrolio. Il clero wahhabita dà legittimita religiosa alla dinastia e dunque gode di un particolare peso; le tribù locali costituiscono le gambe e le mani di cui si serve la dinastia per controllare il Paese. L’Arabia non ha una costituzione scritta e al suo interno non esistono procedimenti elettorali. Il potere è gestito da una ristretta cricca secondo rigide gerarchie familiari e tribali: al primo posto, ovviamente, c’è la casata reale, la famiglia Sa’ud. I figli di Abdel Aziz si sono ripartiti un infinità di altissime cariche, alternandosele per tutta la durata delle loro vite. L’elenco è troppo lungo per riportarlo tutto (Abdel Aziz ha avuto 45 figli), ma uno spaccato è comunque ben illustrativo delle dinamiche del potere:
- Salman: Ministro della difesa; Re (dal Gennaio di quest’anno)
- Sultan: Ministro della difesa; Vice Primo Ministro; Principe della corona;
- Nayif: Ministro dell’interno; Principe della Corona;
- Talal: Ministro delle telecomunicazioni;
- Mutib: Ministro affari provinciali e rurali;
- Nawwaf: Direttore dell’intelligence.
Questo sistema è ancora legittimato dal clero, che è ricompensato della sua approvazione con un’intromissione nelle vicende dello stato forse unico al mondo. La famosa Shari’a, la legge coranica – o meglio, l’interpretazione fondamentalista e letterale che ne dà il wahabismo – è il perno della legislazione e le nuove leggi devono esservi ispirate; le massime autorità religiose sono insomma anche le massime autorità giudiziarie, gli ulemà. Tutto ciò a volte dà risultati grotteschi, come le fatwe contro i pupazzi di neve considerati idoli e dunque dannosi per l’anima di chi li costruisce.
Più spesso, è causa di continue violazioni dei diritti umani.
Le donne sono così discriminate che non possono nemmeno guidare, come già detto. Nel 1990, ne vennero arrestate cinquanta durante un’apposita retata; l’ultimo caso è di dicembre, quando due attiviste piuttosto note in particolare su twitter hanno osato sfidare il divieto. Sono state liberate dopo 72 giorni di carcere. L’attivismo online – su cui è addirittura basato un romanzo, Ragazze di Riyadh di Rajaa Alsanea –sembra essere visto come fumo negli occhi dai Sa’ud. Recentemente Raif Badawi, un blogger piuttosto noto nel Paese, candidato al Premio Nobel per la pace, è stato candidato a mille frustate e quindici anni di carcere. Per completare il quadro, la pena di morte è ampiamente diffusa. Nonostante tutto questo, il sito dell’ambasciata saudita in Italia si vanta che ”l’efficacia di questo assetto giuridico è testimoniata nel primato detenuto dall’Arabia Saudita, che vanta il minor numero di crimini a livello mondiale”.
I rapporti con il clero sono coltivati con cura dalla casa regnante ma non sempre sono stati idilliaci: nel 1979, ad esempio, un pugno di estremisti wahhabiti occupò la grande moschea della Mecca pretendendo la deposizione dell’ormai empia casa reale. Per sgominare la ribellione e macchiare di sangue il luogo di culto, i Sa’ud dovettero chiedere il permesso alle alte sfere del clero. Che acconsentirono, a una condizione: i sovrani avrebbero dovuto preservare i costumi del Paese che andavano corrompendosi e esportare il wahhabismo all’estero. Quelli, infatti, erano gli anni successivi alla grande crisi petrolifera, in cui i sauditi giocarono un ruolo di estrema rilevanza. L’innalzamento del prezzo del greggio fece affluire nelle casse statali – ovvero di famiglia – una quantità spropositata di denaro. Va ricordato che l’Arabia Saudita possiede il 25% delle riserve mondiali di petrolio e la vendita dell’oro nero costituisce il 75% delle entrate dello stato. I reali hanno investito questa cascata di denaro in vari modi, ad esempio oliando (è il caso di dirlo) i legami con le tribù, non sempre facili.
È utile capire meglio cosa si intende per tribù, perché il rischio di immaginarsi la carovana accampata nel deserto sotto le stelle è ad un passo: oggi, in Arabia Saudita, i nomadi non esistono quasi più — il governo, fin dalla fondazione del regno, ha fatto ogni sforzo per far sì che la popolazione diventasse stanziale. Il concetto di tribù è quindi quello di appartenenza a strutture sociali e con caratteristiche quasi etniche molto antiche, diffuse per tutta l’area mediorientale e spesso assai vaste: la più numerosa, quella degli al-Shammar, conta tre milioni di persone tra Arabia Saudita, Siria e Iraq. Nella costruzione dello stato, alcune tribù si sono appaltate delle funzioni specifiche — ad esempio, la massima autorità religiosa, il muftì, è sempre un membro della tribù Sheikh; oppure, le famiglie di mercanti dell’Hijaz sono state scelte per costruire l’apparato statale. I sovrani, insomma, si sono sepre serviti di queste dinamiche alla fin fine di tipo clientelare: ma si sono poi ritrovati nella situazione di dipendere dagli umori delle tribù per garantirsi la stabilità interna. Questo gioco al rilancio sul conservatorismo tribale ha raggiunto livelli parossistici. Qualche anno fa, una corte ha annullato un matrimonio solo perché i fratelli della sposa, membri dell’importante tribù Tamim, ritenevano che il marito fosse ”un impostore”. Così, sulla loro parola.
Una menzione a parte parlando della società saudita meritano poi gli immigrati, che sono nove milioni su una popolazione di ventidue milioni di persone e non godono di alcun diritto. Per immigrare in Arabia Saudita, uno straniero deve essere chiamato direttamente da un datore di lavoro locale, che poi ne è di fatto il padrone assoluto per tutta la permanenza nel regno. Il lavoratore deve anche pagare una pesante tassa di soggiorno e non può accedere al sistema di welfare che lo stato finanzia con i petroldollari. Qualche anno fa, il regno ha espulso centinaia di migliaia di migranti ”per favorire l’occupazione della popolazione saudita”. Situazione comune a tutti i Paesi del Golfo. La cosa interessante è che la maggior parte dei lavoratori provenivano da quei Paesi – in particolare del corno d’ Africa e del medioriente – in cui l’Arabia contribuiva a finanziare organizzazioni legate al fondamentalismo islamico.
Ma questa è una storia che vi racconteremo prossimamente.