Del: 24 Marzo 2015 Di: Arianna Bettin Commenti: 1

Arianna Bettin Campanini
@AriBettin

Un elettrodotto lungo 415km, di cui 390 sottomarini, un ponte elettrico a corrente continua che unirà la città abruzzese di Villanova ai Balcani, fino a Teodo, o Tivat, principale porto montenegrino. Un’opera strategica – almeno sulla carta – la cui sola realizzazione costerà nel complesso più di un miliardo di euro.
Lo chiamano MonIta.

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I lavori per la realizzazione di MonIta in Italia hanno preso il via circa due mesi fa, il 20 gennaio, fra le proteste di cittadini e comitati, Legambiente e Movimento 5 Stelle. A suscitare perplessità non è tanto l’impatto ambientale dell’opera, quanto la fumosità del progetto.

Di fumo, infatti, la storia del cavidotto Tivat – Villanova è pieno: ombre sul suo concepimento, ombre sulla sua realizzazione, ombre sul suo futuro. Ombre e molti, moltissimi soldi.

Una cosa però è certa: il cantiere è stato avviato in netto ritardo. L’impianto avrebbe dovuto essere operante già dal 2015, e invece, stando alle stime dei tecnici, non potrà entrare in funzione prima del 2020. Un ritardo che, come vedremo, ha comportato e verosimilmente comporterà delle perdite ingenti al nostro erario.
Ma innanzitutto vale la pena chiedersi il perché di un’opera simile e perché questo venga ritenuto un intervento strategico. A chi o a cosa giova, per chi o cosa è strategico e in cosa consiste la strategia?

Il MonIta rientra in un disegno decisamente più ampio del semplice collegamento delle centrali balcaniche alle nostre case. È l’ultimo tassello, in ordine cronologico, di un’incredibile campagna di conquista dei ricchi e ancora vergini territori al di là dell’Adriatico, messo in atto dalle aziende italiane e non solo. Ed è uno dei tanti tasselli di un mosaico vastissimo, fatto di relazioni diplomatiche talvolta traballanti, che muove dall’ambizione di rendere l’Italia uno snodo energetico di primaria rilevanza internazionale. Un processo che virtualmente, in un futuro non meglio specificato, dovrebbe portarci grandi vantaggi, ma che, nella miglior tradizione italica, finora si è rivelato solo l’ennesima occasione di speculazione scriteriata.

La campagna di Montenegro
I primi accordi con la neonata repubblica montenegrina risalgono a circa sette anni fa: a poco più di un anno dall’indipendenza del Montenegro, il 6 dicembre 2007, viene siglato dall’allora Ministro dello Sviluppo Economico Pier Luigi Bersani un primo documento in cui si prevede una connessione fra i due stati al fine di sventare i rischi di black-out dovuti al deficit energetico italiano. Accantonato per un paio d’anni, il progetto viene poi riesumato nel 2009 dal Governo Berlusconi III. Nel frattempo però la situazione si è capovolta e da uno stato di undercapacity delle nostre centrali si è arrivati a un’overcapacity. L’impianto, dunque, ha già perso fra il 2007 e il 2008 quello che era il suo scopo iniziale.

Nonostante ciò, il Governo decide di andare avanti e l’obiettivo ufficiale della struttura viene modificato: non più la compensazione della nostra grave carenza elettrica, problema ormai risolto, ma l’importazione di energia da fonti rinnovabili per rientrare nell‘accordo 20-20-20 UE. Poco importa che sia già chiaro che l’Italia avrebbe raggiunto i criteri richiesti. Sia per il considerevole aumento del numero d’impianti rinnovabili, sia per una flessione dei consumi interni, la quota netta di consumi coperta da fonti rinnovabili si è portata nel 2013 al 16,7% , un valore vicino al target assegnato all’Italia per il 2020 (17%) e all’obiettivo individuato dalla Strategia Energetica Nazionale (19-20%), mentre gli impianti alimentati da fonti rinnovabili hanno raggiunto il 40,2% della potenza complessiva installata in Italia e il 38,6% della produzione lorda totale.
E i dati relativi al 2014 parlano di un ulteriore miglioramento.

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Parallelamente l’esecutivo avvia con grande fervore un’intensa campagna di conquista del suolo balcanico. Molte aziende pubbliche e private del settore energetico vengono indirizzate e incoraggiate a compiere corposi investimenti in terra straniera, tra Serbia e Montenegro; gli stessi Ministeri impegnano le proprie risorse per sviluppare progetti non di rado di dubbia valenza. Sembrerebbe una vera e propria colonizzazione.

Il 18 gennaio 2009 decollano da Roma con un volo di Stato il deputato PdL Valentino Valentini, l’allora Ministro del Turismo Michela Brambilla e il sottosegretario al Commercio Estero Urso, accompagnati da una sessantina di imprenditori e dirigenti italiani. Fra questi, i rappresentanti di A2A, Enel, Terna, Banca Intesa, Ferrovie dello Stato ed Edison. Direzione: Podgorica, con la benedizione del Presidente e del ex Ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola.
Lo scopo della spedizione è quella di stringere rapporti con il governo montenegrino, guidato dalla controversa figura di Milo Đukanović.

Milo Đukanović, figura centrale nella politica del Montenegro dai primi anni del Duemila a oggi (attualmente ricopre la carica di Primo Ministro), era già noto alle autorità italiane dal 2003, anno in cui la Procura di Napoli ha aperto un’indagine su un caso di contrabbando di tabacco che lo vedeva coinvolto in prima persona. Le procure di Bari e Napoli hanno poi accertato pericolosi collegamenti tra la Camorra, la Sacra Corona Unita ed esponenti montenegrini molto vicini al capo di governo.
Manco a dirlo, tra Đukanović e Silvio Berlusconi nasce una grande intesa.

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La Caporetto di A2A
Fra le aziende più interessate a espandersi oltre l’Adriatico vi è la già citata A2A, la municipalizzata più grande d’Italia, colosso del settore energetico frutto della fusione delle municipalizzate di Milano e Brescia. La A2A decide di investire in Montenegro 500 milioni di euro nell’acquisizione del 43% della Epcg, il corrispettivo locale dell’Enel, guadagnando la quota di maggioranza e facendo dell’Italia il primo investitore estero in terra montenegrina. Si aggiudica così anche la costruzione di quattro centrali idroelettriche.
Renzo Capra, ex presidente del consiglio di sorveglianza dell’azienda, testimonia come all’epoca dell’accordo non vi fosse alcun piano economico dell’operazione.

«Non si sapeva se ci si guadagnava o non ci si guadagnava, c’erano delle idee» — idee da lui definite come «non autonome, non autoctone», «derivate da un’insufflata del governo».

Malgrado le aspettative, il saldo del 2011 della Epcg è disastroso: 60 milioni di perdite in un solo anno. L’azienda di Nikšić rischia la bancarotta, mentre la A2A crolla in borsa: il suo titolo vale dieci volte meno rispetto al suo valore prima dell’acquisizione.
I motivi del tracollo di Epcg sono molteplici: i dirigenti A2A additano le pessime condizioni metereologiche, uno scomodo debitore moroso (la KAP, azienda privata montenegrina dell’alluminio, accumula in un solo anno 32 milioni di debiti) e uno sgambetto inaspettato del governo Đukanović. Subito dopo l’arrembaggio di A2A, l’esecutivo decide di abbassare le tariffe energetiche e la Epcg, costretta a vendere elettricità al ribasso, vede sfumare 16 milioni di entrate previste.

Insomma, non esattamente un’ottima annata, frutto di un pessimo investimento compiuto avventatamente e con soldi pubblici. Fortunatamente dal 2012 la situazione rientra, la Epcg riesce a liberarsi di KAP e le perdite si riducono a “soli” 5,8 milioni netti.
Le risorse impiegate da A2A, tuttavia, non sono state sacrificate invano. Da questa Caporetto qualcuno è riuscito persino a guadagnarci. È la Prva Banka, posseduta per un 30% da Aco Đukanović, fratello di Milo, che si trovava sull’orlo della bancarotta e che grazie all’iniezione di 70 milioni nelle sue casse da parte della multiutility lombarda è riuscita a salvare la pelle.

«I flussi di fondi conseguenti all’operazione» si legge sul sito di A2A «sono stati effettuati secondo le indicazioni contenute nel bando e nella documentazione di gara».

A cinque anni dall’assalto, dopo un aumento di capitale utile a saldare finalmente i debiti contratti dalla Epcg con lo Stato di Montenegro, in cambio di una riduzione delle sue quote al 40%, e dopo la nomina di nuovi dirigenti, l’azienda italiana si trova a un bivio. Tornare a casa con le pive nel sacco o mantenere la posizione per altri cinque anni?
«Il Montenegro è un’operazione che ci siamo trovati dal precedente management», afferma il 9 marzo di quest’anno il neopresidente A2A Giovanni Valotti, ammettendo che l’intero progetto era subordinato proprio alla costruzione del MonIta. Ma l’inaugurazione del cavidotto è lontana e ammette che non sa se all’Italia servirà ancora energia dal Montenegro.

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Grandi opere, grandi spese (ricavi nulli?)
Ma se A2A inizia a tentennare, Terna s.p.a., l’azienda che si sta occupando della realizzazione del cavidotto, continua a sottolineare la necessità dell’opera: il deficit energetico abruzzese sarebbe tale da giustificare un intervento invasivo e oneroso.
Come si legge dal sito dell’azienda, Terna «sta sviluppando progetti di nuove interconnessioni sottomarine con l’area balcanica con l’obiettivo di contribuire alla diversificazione delle fonti e delle aree di approvvigionamento energetico e alla riduzione del prezzo dell’energia elettrica in Italia, nonché di incrementare i livelli di sicurezza del sistema elettrico italiano».
In realtà – e ciò si può constatare dagli stessi dati pubblicati da Terna sulla produzione e il consumo energetico nazionale – l’Abruzzo non soffre un deficit così gravoso e negli ultimi anni ha ridotto di molto la forbice tra produzione e consumi, complice il boom delle rinnovabili fatto registrare dal 2009 a oggi.

Le linee di collegamento con le altre regioni saranno forse insufficienti e carenti come sostiene Terna, ma perché dunque lanciarsi nella realizzazione di un’opera imponente come il MonIta invece di potenziare le infrastrutture già esistenti?

Anche rispetto alla diversificazione delle fonti d’approvvigionamento, una questione importante e delicata, emergono diverse incongruenze.
Il dotto, ricordiamo, ha come finalità l’importazione d’energia dai Balcani, principalmente da Montenegro, Serbia e Bosnia Erzegovina, con una capacità massima di 1.000 MW.
Ma il Montenegro, pur potendo vantare un potenziale energetico rinnovabile notevole (potenziale, appunto, non “attuale”), riesce a produrre energia solo per il 60% del suo fabbisogno, non è quindi nemmeno lontanamente autosufficiente: il restante 40% le viene fornito dalle centrali (perlopiù a carbone) serbe.
La Serbia, dal canto suo, già esporta tutta l’energia che le è possibile esportare. Neppure la vicina Croazia è in grado di vendere alcun surplus, essendo anch’essa in deficit.

Solo la costruzione di nuove centrali garantirebbe l’arrivo di una quantità d’energia apprezzabile fino alle coste nostrane. Ma si tratterebbe di energia che, ad ogni modo, farebbe più comodo agli stati balcanici. Bisogna ricordare che Serbia, Montenegro e Bosnia Erzegovina conducono da anni intense trattative con l’Unione Europea per entrarne a far parte il prima possibile, e per farlo devono raggiungere gli obiettivi minimi con quest’elettricità. L’Italia, invece, non avrebbe alcun bisogno attualmente di acquistarne e potrebbe impiegare le proprie risorse per incrementare e rafforzare la produzione interna di energia verde. È altresì impensabile che possano essere invertite le parti, ossia che a esportare sia lo Stato italiano e a comprare siano i partner balcanici. Questo in primo luogo per ragioni di mercato, per cui il prezzo da noi fissato non sarebbe affatto conveniente. Per questo motivo da progetto il cavo Tivat – Pescara non prevede il reverse flow e sarà unidirezionale

Comunque sia, l’Italia è ormai vincolata da accordi di cui non potrà liberarsi.

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Gli accordi in Bosnia e in Serbia
Sono tre le centrali idroelettriche di cui lo Stato italiano attende la costruzione lungo la Drina bosniaca al modico prezzo di 830 milioni di euro, forti di un accordo stipulato nel giugno 2011 con la Republika Srprska, a cui se ne aggiungerebbe un’altra decina di piccole dimensioni lungo il tratto serbo dell’Ibar, un investimento di altri 300 milioni coperti per un 49% dalla statale Elektroprivreda Srbije e per il restante 51% da un’azienda non a caso italiana, la SECI Energia s.p.a. del gruppo Maccaferri, di Gaetano Maccaferri, presidente di Confindustria Emilia Romagna.

Nel 2012 la CEE Bankwatch Network segnala delle irregolarità nella manovra: l’accordo tra Serbia e Italia sarebbe stato effettuato senza previa gara d’appalto e oltretutto SECI non ha mai avuto esperienze di costruzione di centrali idroelettriche.

Per le proteste degli ambientalisti, problemi burocratici e procedure non trasparenti sotto la lente delle autorità locali, i lavori stentano a partire.

Ma l’aspetto più curioso della vicenda è che a livello locale nessuno conosce i dettagli dei progetti, nemmeno i sindaci dei comuni interessati.

Un altro accordo stipulato nel 2009 tra Podgorica e l’ex Ministro Scajola impegnava l’Italia ad acquistare l’energia verde serba per quindici anni al prezzo di 155€/MWh, un prezzo folle, se si considera che il costo medio dell’elettricità italiana in Borsa Elettrica era di 63 €/MWh nel 2013, e all’epoca la Serbia ne vendeva all’ingrosso al prezzo di 40€/MWh. Inoltre, facendo una previsione, questo avrebbe portato a spendere ogni anno, e per 15 anni, fino a 930 milioni di euro. Tutto questo avrebbe permesso a SECI ed Elektroprivreda di ammortizzare l’investimento.

A seguito di un’interrogazione parlamentare presentata un anno fa, il Ministero dello Sviluppo Economico ha puntualizzato solo a novembre 2014 che tale tariffa sarebbe stata adottata in caso di rischio di mancato raggiungimento degli obiettivi 20-20-20, in particolare nella parte relativa al raggiungimento del 17% di produzione da fonti rinnovabili, per evitare sanzioni. Già dal 2012 però risultava chiaro che l’Italia sarebbe rientrata abbondantemente entro i termini del patto, senza bisogno di ulteriori approvvigionamenti. Il MiSE assicura che, stando alla situazione attuale, quest’elettricità verrà importata a prezzo di mercato, ossia a 55€/MWh. A questo punto sarebbe interessante sapere come le società coinvolte copriranno l’esborso.

E ora?
Premesso che almeno idealmente una strategia di diversificazione delle fonti d’approvvigionamento è quantomeno auspicabile da parte di un Paese come l’Italia e che il tentativo di rendere lo Stivale il principale snodo energetico europeo non è campato in aria – sarebbe, almeno politicamente, un traguardo eccezionale –si tratta come al solito di calare nella realtà i sogni di gloria nazionali. La carica oltremare, da un punto di vista puramente politico ed economico, risulta essere stato gestita malamente sin dalla sua origine, con un coordinamento delle forze e delle risorse pessimo, che ha comportato vere e proprie emorragie di fondi pubblici, tanto che ormai si dubita persino dell’utilità della nuova connessione.

«Il Governo, nonostante il cambiamento di scenario, continua a considerare valido il progetto di interconnessione e garantisce che non ci saranno ricadute sulla bolletta degli italiani, mentre ci sono senz’altro una serie di obblighi che il Governo italiano si è assunto e che andranno rispettati, ma che saranno compensati dai vantaggi derivanti dall’interconnessione stessa», dichiarava a gennaio il vice Ministro allo Sviluppo Economico Claudio De Vincenti. Nella stessa conferenza ventilava anche una possibilità d’esportazione di energia dall’Italia ai Balcani, possibilità che attualmente, come abbiamo già visto, è estremamente remota, se non impossibile.

Da quest’analisi i vantaggi che dovrebbero arrivare allo Stato paiono pressoché nulli nel futuro prossimo, così come sembrerebbero nulli i benefici che ne trarrebbero i cittadini; anzi, a ben vedere, sembra proprio che all’Italia toccherà continuare a pagare cara questa strategia.

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Altre fonti e link utili:

http://www.qualenergia.it/articoli/20150312-linea-abruzzo-montenegro-abbiamo-una-nuova-tav-elettrica
http://www.primadanoi.it/news/mondo/554816/Elettrodotto-in-Abruzzo–la-lunga.html
http://www.qualenergia.it/articoli/20140205-elettricita-rinnovabile-da-serbia-un-accordo-da-12-mld-poco-trasparente
http://www.abruzzoindependent.it/news/Terna-Collegamento-Italia-Montenegro-necessario-all-Abruzzo/13408.htm
http://www.repubblica.it/esteri/2010/05/19/news/montenegro_il_business_dell_energia_le_mire_italiane_sul_nuovo_eldorado-4172082/
http://www.report.rai.it/dl/docs/1354479881620cortocircuito_report_pdf.pdf
http://www.report.rai.it/dl/docs/1416136788377ambiente_famiglia_report.pdf
http://www.a2a.eu/it/societa/montenegro/domande_risposte/
http://www.gse.it/it/Statistiche/RapportiStatistici/Pagine/default.aspx
http://www.terna.it/default/Home/SISTEMA_ELETTRICO/statistiche/dati_statistici.aspx

Arianna Bettin
Irrequieta studentessa di filosofia, cerco di fare del punto interrogativo la mia ragion d'essere e la chiave di lettura della realtà.
Nel dubbio, ci scrivo, ci corro e ci rido su.

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