
Francesco Floris
@FraFloris
“The Libyans talk and talk but don’t buy anything (from us). Only the Italians land any contracts”.
Queste parole si leggono in un documento dell’8 Febbraio 2010, inviato dal Ministero degli Esteri francese al Dipartimento di Stato statunitense – sezione Maghreb Collective, European Political Collective e Arab Israeli Collective.

Un report di poche pagine, reso pubblico da Wikileaks, nel quale si riassumono e si citano le impressioni di Cyrille Rogeau, all’epoca capo della diplomazia francese per il nord Africa.
Il funzionario traccia uno scenario dei rapporti fra Parigi e le principali capitali nordafricane: dalle eccellenti relazioni con il Marocco del Re Mohammed VI e con la Tunisia del Presidente Ben Ali, passando per i rapporti definiti “frigid and frozen” con la ex colonia algerina, il cui governo si rifiutava di triangolare le proprie conoscenze in materia di contrasto al terrorismo con i governi di Francia, Regno Unito e Usa, preferendo “matrimoni a due” per lo scambio di informazioni; fino ad arrivare al caso libico di Mu’ammar Gheddafi, che suscita vera e propria frustrazione nonostante le parziali aperture, dopo decenni di gelo diplomatico, mostrate in quei mesi dal Ra’is con un discorso tenuto alle Nazioni Unite nel quale non si attaccavano direttamente le cancellerie di Francia e Stati Uniti.
In proposito Rogeau scrive: “This omission was rare. We took note”, aggiungendo che la Francia dovrà comunque avere pazienza prima di poter intrattenere liaison amorose con Tripoli.
Pazienza che alla Francia mancò un anno e trentanove giorni dopo, quando il 19 marzo 2011 su richiesta pressante del Presidente Nicolas Sarkozy, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con la risoluzione 1973, approvò la missione militare di supporto alle milizie ribelli libiche che stavano combattendo le truppe di Gheddafi. Sei giorni dopo la stessa missione venne consegnata nelle mani di una coalizione di “Paesi volenterosi” della NATO a guida transalpina.
I primi aerei a levarsi furono i Mirage 2000 dell’aviazione militare francese, bombardando le truppe di terra lealiste che assediavano la città di Bengasi – centro nevralgico della cosiddetta “primavera araba” in Libia.
A Novembre dello stesso anno Gheddafi veniva ammazzato e il Paese cadeva preda dell’entropia politico-militare, caos ben esemplificato dalla presenza di due diversi Parlamenti – quello di Tripoli e quello Tobruk – e da una guerra civile che alcuni osservatori definiscono “medievale”, proprio per la sua natura frammentaria e tribale.
Perché Sarkozy attaccò?
In un rapporto dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), a firma di Arturo Varvelli e datato 26 aprile 2011 – una manciata di giorni dopo il lancio dell’offensiva militare – vengono spiegate le ragioni che condussero l’allora Presidente francese a imbracciare metaforicamente le armi e spingere per la campagna militare.
Da un lato le primavere arabe destabilizzavano gli interessi francesi in tutto il nord Africa: il principale alleato nell’area, il presidente tunisino Ben Ali, veniva destituito contro ogni previsione – solo pochi mesi prima lo stesso Cyrille Rogeau commetteva un grave errore di valutazione, scrivendo che i tunisini accettavano di fatto una sorta di patto sociale, per il quale in cambio della stabilità politica e della crescita economica “the population keeps quiet”, e che in ogni caso anche una successione di Ben Ali per ragioni anagrafiche non avrebbe dovuto preoccupare la Francia, almeno sul medio-termine.
Questa sicurezza costò cara all’allora Ministro degli Esteri francese, Michèle Alliot-Marie, costretta a dimettersi dall’esecutivo presieduto da François Fillion proprio per le relazioni personali ambigue con Ben Ali.
Al netto della sorpresa che colse l’Eliseo, come del resto le altre cancellerie europee, nell’inverno del 2011, secondo Varvelli, sussistevano attriti profondi nelle relazioni Francia-Libia determinate da ragioni storiche oltre che ad un contesto di politica interna transalpina che “obbligava” Sarkozy a scelte azzardate.
La Libia di Gheddafi continuava nonostante gli avvertimenti ad intervenire in chiave anti-francese nelle crisi centroafricane, dal Darfour, al Niger fino al Mali e allo stesso tempo si opponeva strenuamente al progetto dell’Unione per il Mediterraneo – un accordo politico-commerciale che procede a rilento dal 1995 e che prevede la creazione di un’area di libero scambio fra i Paesi della Unione Europea e le nazioni africane, slave e mediorientali che si affacciano sul Mar Mediterraneo. Mu’ammar Gheddafi si ritagliava in questo modo il ruolo di leader avverso a un progetto da lui stesso più volte definito neocoloniale.
A questi contrasti oggettivi si aggiungeva la necessità francese di rilanciare la propria immagine nell’area, spesso ingrigita dal passato coloniale. E quale migliore occasione per gli strateghi dell’Eliseo dell’appoggio a rivoluzioni eterogenee, spesso impropriamente definite democratiche, per proporsi come nazione salvatrice degli interessi dei popoli, contro regimi tirannici e corrotti?
L’occasione era troppo ghiotta per farsela scappare.
Si aggiunga che nel marzo del 2010, in Francia, si erano svolte le elezioni amministrative, elezioni che si erano concretizzate in una Caporetto per Sarkozy, il suo partito e l’intera coalizione di centro-destra – vistasi sostanzialmente raggiungere dal Front National di Marine Le Pen e costretta alla ritirata da Socialisti e alleati in 21 regioni sulle 22 che costituiscono la Francia metropolitana. In questo contesto di crollo verticale dei consensi, Sarkozy vide la possibilità di sfruttare la missione militare in Libia come volano elettorale per abbattere il gap cumulato.
Da ultimo ma di certo non meno rilevante, bisogna considerare le relazioni economiche che legavano Tripoli a Parigi prima del 2011 e come le medesime siano cambiate dopo l’intervento militare.
Mentre Rogeau scriveva il documento citato in apertura, le esportazioni dalla Libia verso la Francia – per lo più greggio, petrolio raffinato, gas naturale e prodotti chimici – erano pari all’8.94% su un volume totale di 44.89 miliardi di dollari esportati ogni anno verso il resto del mondo, percentuale che posizionava la Francia dietro a Paesi come l’Italia (37.65%) e la Germania (10.11%).
Dal lato delle importazioni – i libici acquistano dall’estero quasi tutti i macchinari, i semi-lavorati, i prodotti alimentari e i mezzi di trasporto di cui necessitano – su un totale di 24.47 miliardi di dollari la Francia si aggiudicava una quota pari al 5.63%, dietro a Italia, Cina, Turchia e Germania.
Oltre a queste percentuali di interscambio commerciale decisamente più favorevoli a Paesi come l’Italia, un ulteriore fatto specifico scatenò in quei mesi l’ira delle società francesi con interessi in Libia: nell’ambito di una serie di accordi con Eni e in precedenza con il Governo italiano (attraverso il Trattato di cooperazione e amicizia del 2008), l’Ente Nazionale Idrocarburi vedeva ridursi i proprio margini di profitto su petrolio e gas estratti; in cambio venivano concessi a società italiane una serie di appalti, dalla commessa per elicotteri a Finmeccanica fino alla costruzione del Palazzo dei Congressi di Tripoli affidato alla Impregilo.
Le milizie ribelli libiche continuarono a ripetere per tutta la durata del conflitto che i contratti in essere non sarebbero stati modificati dall’eventuale caduta di Gheddafi, ma i dati dicono che dopo la crisi militare solo una quota delle imprese italiane ha ripreso effettivamente le attività produttive nel Paese collegate a committenti pubblici.
Discorso similare per il mercato delle risorse energetiche: nonostante gli sforzi del Parlamento transitorio di Tripoli per il rilascio di nuove licenze di sfruttamento, il settore petrolifero è bloccato dall’estate del 2013, quando alcuni miliziani nella Cirenaica, guidati dal trentatreenne “Signore del petrolio” Ibrahim Jadran, hanno occupato militarmente gli impianti di estrazione, gli oleodotti e i terminali di esportazione, facendo crollare la produzione di greggio a poco più di 200.000 barili al giorno, contro l’1,5 milioni di barili estratti nella primavera dello stesso anno.
I vantaggi economici ottenuti dalla Francia nel capeggiare la missione militare in Libia sono complessi da quantificare, anche perché nel primo anno di guerra il Paese assistette a una recessione rovinosa, con un crollo del Pil superiore al 50% fra fine 2010 e fine 2011, sebbene nei due anni successivi si sia tornati a livelli pre-crisi.
Molto più semplice comprendere le ragioni politiche ed economiche che spinsero Sarkozy e suoi consiglieri a mettere in atto un piano che doveva avvicinare una volta e per sempre la Libia e suoi pozzi alla Francia, ragioni che nonostante la facile propaganda di quella primavera, poco avevano a che fare con le rivolte presunte democratiche e con gli interessi dei popoli.
Proprio in queste settimane, mentre si discute vivacemente se intervenire in Libia con un contingente militare internazionale, la lezione del 2011 dovrebbe servire a non commettere errori di sottovalutazione e a considerare l’infinità di variabili con i quali la realtà libica fa oggi conti.
Quattro anni fa la Francia aveva un Paese nemico con il quale intratteneva frigide relazioni diplomatiche e commerciali. Dopo la guerra ci si trova con una porzione di terra che è a stento una nazione, nella quale è difficile distinguere le maschere di amici e alleati da quelle di nemici e “terroristi”, perché spesso quelle maschere cambiano inquilino dalla sera alla mattina.